Recensioni

  • F. Focardi, IL CATTIVO TEDESCO E IL BRAVO ITALIANO. LA RIMOZIONE DELLE COLPE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

F.Focardi, il cattivo tedesco e il bravo italiano

Il libro è il frutto di una lunga gestazione: esso prende le mosse dalla tesi di laurea, continua con quella di dottorato nonché con gli innumerevoli studi di Filippo Focardi sul tema della costruzione della memoria. Seguendo una cronologia – dall’armistizio del 1943 alla firma del Trattato di Pace nel 1947 – e alcuni nuclei tematici, il volume si svolge in sette densi capitoli. Altrettanto ricco è l’apparato delle note: anche solo per questo il libro dovrebbe essere un’opera da avere nella propria libreria.

Basato in buona parte su fonti a stampa, giornali, pubblicistica dell’epoca e storiografia italiana e non, l’opera si costruisce intorno alla dimostrazione di un’ipotesi di partenza: che tra il ’43 e il ’47 si sia profondamente radicato il mito del «bravo italiano» e del «cattivo tedesco» (che, in un certo qual modo giunge fino ad oggi e su questo tornerò più avanti) che ha inciso fortemente sulla costruzione della memoria pubblica nazionale nonché sulla difficoltà che questo paese ha di fare i conti con il proprio passato e – purtroppo – non solo con quello fascista.

Il mito del «bravo italiano» non è scollegato del tutto da un altro mito fondante della Repubblica, quello della Resistenza (su cui l’A., oltre a vari saggi, aveva pubblicato un altro libro, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, 2005). Se non si tratta di una bugia vera e propria, quella del «bravo italiano» è una mezza verità, una mezza verità su cui è basata la nostra identità collettiva: c’è da riflettere su questo. E Focardi ci riflette profondamente perché ci dimostra quali siano state le dinamiche e soprattutto quali siano state le motivazioni politiche che hanno permesso a questo mito di affondare le proprie radici così nel profondo tanto da diventare, forse, l’unico elemento unificante nel frastagliato panorama di memorie divise.

L’A. ricostruisce le modalità con cui il mito del «bravo italiano» e del «cattivo tedesco»– a partire dalla propaganda degli Alleati con Radio Londra, Voce dall’America, Radio Mosca – fu creato e come questo fu sostenuto con motivazioni diverse da tutti i soggetti politici, dalla monarchia a Badoglio agli ambienti antifascisti. Sottolineare il «cattivo tedesco» servì a tutte le forze politiche per rafforzare la propria posizione politica. Uno stereotipo che, dunque, era trasversale a tutti i partiti. Il «cattivo tedesco» servì alla monarchia per allontanare da sé il segno indelebile del tradimento (di questo si trattò quando il re stipulò in segreto l’armistizio con gli angloamericani); a Badoglio e agli ambienti militari per tacere sulle responsabilità degli alti comandi militari (e di sé stesso) circa la disastrosa guerra di aggressione dell’Italia; agli antifascisti per porsi come unici veri patrioti in grado di guidare il paese e la lotta di liberazione. Ma in generale il «cattivo tedesco» fu ancora più funzionale per non essere soggetti a una pace punitiva al tavolo dei vincitori e eliminare ogni retaggio di sodalizio con la Germania in vista dell’ingresso nelle Nazioni Unite. Del resto vi era un documento diplomatico a rafforzare tale convinzione: il telegramma redatto a Quebec il 18 agosto 1943 da Roosevelt e Churchill aveva infatti previsto migliori condizioni di resa imposte all’Italia a seconda «dell’entità dell’aiuto che il Governo e il popolo italiani daranno [avrebbero dato] realmente alle Nazioni Unite contro la Germania […]» (p. 45).

Più che nascita si potrebbe dire radicamento di un mito: le origini del sentimento antigermanico risalivano al Risorgimento e si rafforzarono nella prima guerra mondiale; tuttavia la coppia «cattivo tedesco/buono italiano» nacque nella seconda guerra mondiale e, dal ’43, diventò un fattore di legittimazione per l’Italia post fascista. Il tedesco era: il Male assoluto, il Nemico di sempre, barbaro (forse anche per una caratterizzazione geografico-antropologico, quasi che dall’Est venisse la barbarie: la Germania, da sempre ai confini con quel mondo, si trovava a metà strada tra il “civile” Occidente e il “barbaro” Oriente; ciò riemergerà anche in tempi a noi più recenti nella distinzione fra “Ossi” e “Wessi”, i tedeschi dell’Est e i tedeschi dell’Ovest); belva feroce ma anche fredda macchina che eseguiva gli ordini con ottusa obbedienza. A ciò si deve aggiungere il ruolo svolto dalle immagini mentali e visuali nella raffigurazione del tedesco: quello legato alle teorizzazioni di antropologi e etnologi della fine dell’800, quello collettivo dopo la prima guerra mondiale quando era diffusa la leggenda che i tedeschi avessero mozzato le mani ai bambini (come emerge nella iconografia, viene in mente Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, 2005 di Antonio Gibelli); quello legato alla confessionalità (tedeschi protestanti ma anche “figli di Odino”).

Ma i due stereotipi – il «bravo italiano» e il «cattivo tedesco» vivevano solo se vi era anche l’altro, non reggevano se divisi. Fra l’altro la presunta bontà degli italiani andava di pari passo solo con la presunta cattiveria dei tedeschi: non esiste la coppia «bravo italiano-cattivo giapponese», eppure entrambi facevano parte dell’Asse. All’opposto del tedesco l’italiano risultava: vittima del fascismo; vittima di una guerra che non sentiva, di cui era estraneo e di cui non era colpevole; presunto innocente; vittima degli ambienti militari (perché male equipaggiato); solidale e umano con i popoli invasi (l’italiano aveva un’anima, il tedesco-automa no); salvatore degli ebrei perché le leggi antiebraiche erano state un nefasto contagio della Germania (era questa l’interpretazione dei cattolici, delle sinistre, dei liberali). Il salvataggio degli ebrei, in quest’ottica, diventava allora l’ennesima prova dell’esistenza di un abisso umano tra italiani e tedeschi.

Attaccò la convinzione che il regime fascista era stato qualcosa di alieno agli italiani che furono distinti nettamente dal regime fascista e quest’ultimo finì per essere ridotto alla cricca del dittatore e pochi altri stretti collaboratori. L’Asse e il Patto d’acciaio finirono per diventare un affare personale tra Mussolini e Hitler, addirittura fu tirata in ballo la psichiatrica dei due uomini. Insomma si fece strada quella che Croce avrebbe chiamato «parentesi di venti anni» (p. 43).

Il «bravo italiano» non aveva come antitesi solo il «cattivo tedesco», bensì anche «il cattivo italiano», che fu piano piano fatto scomparire anche dalle forze esterne: in questo svolsero un ruolo fondamentale gli Alleati. Già nel 1940 la propaganda del Foreign Office britannico spingeva per fare propaganda non anti-italiana, ma anti-regime. A consolidare la raffigurazione demoniaca del tedesco contribuirono poi le testimonianze dei sopravvissuti e, da una parte, l’istruzione dei processi ai criminali, dall’altra, la “mancata Norimberga” (felice espressione di Enzo Collotti) in Italia.

Il libro offre numerosi spunti di riflessione che vanno anche oltre le pagine da leggere. Innanzitutto la prima domanda è se questi «paradigmi mentali e blocchi emozionali» (p. 178) siano ancora presenti. La recente attualità fa dubitare di una risposta positiva, come ha dimostrato la morte di Erich Priebke. La questione sulla sua sepoltura, con gli episodi di ira e di odi popolari, di violenza collettiva e spontanea, con la presa a calci del carro funebre da parte di persone che, peraltro, anagraficamente nulla hanno a che fare con la storia che Priebke rappresentava, ha messo in luce come sia ancora viva l’immagine del «cattivo tedesco». Certamente Priebke fu un criminale efferato, purtroppo, però non l’unico. Nei confronti di un altro altro criminale di guerra, questa volta italiano, Rodolfo Graziani, è stato invece eretto un monumento. Colpisce, allora, che all’inaugurazione a Affile l’11 agosto 2012 non si siano viste reazioni analoghe. Ci sono state proteste e critiche ma gli stessi media non hanno dato lo stesso peso a quello dato alla vicenda Priebke. Non vengono alla mente immagini che ritraggono scoppi di violenza e di disgusto analoghi a quelli suscitati da Priebke. Eppure Graziani fu un criminale di guerra particolarmente efferato: dal 1922 era stato protagonista della repressione della resistenza libica guidata da Omar al Mukhtar, utilizzando campi di concentramento e pratiche di sedentarizzazione coatta delle popolazioni nomadi; durante la guerra di Etiopia aveva fatto ricorso all’uso dei gas e esecuzioni sommarie; sotto la Rsi era stato ministro della Difesa, poi delle Forze Armate. Con la nuova amministrazione Zingaretti della Regione Lazio sono stati tolti i fondi per il mantenimento del monumento, ma questo è ancora lì. A ciò si aggiunga la coincidenza, per un dispetto della storia, con la ricorrenza del 70° anniversario della deportazione dal ghetto di Roma. Quel 16 ottobre del 1943, 1259 persone furono arrestate, di cui 1022 furono poi deportate a Auschwitz, solo 14 sarebbero tornati. Il rastrellamento fu effettuato dai tedeschi, ma dopo quel terribile episodio, gli arresti degli ebrei italiani furono sempre operati dai fascisti (non ci sarebbero stati, peraltro, gli uomini sufficienti se fossero stati effettuati solo dai tedeschi). In base a una norma della Repubblica sociale italiana nel manifesto di Verona tutti gli ebrei erano considerati nemici stranieri soggetti ad arresto immediato e una circolare specificava che tutti i bambini dovevano seguire la sorte dei loro genitori. Con la questione della sepoltura di Priebke ancora una volta è stato rimarcato, anche tramite gli organi di comunicazione, lo stereotipo del «cattivo tedesco», ma si è dimenticato ancora una volta di riconoscere i «cattivi italiani», come Graziani o i fascisti che avevano arrestato gli ebrei in Italia: quasi la metà degli furono arrestati per opera di italiani molto spesso per delazione di un connazionale, come ci ha ricordato Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria 2002. Si dimentica, ancora troppo, l’esperienza della Rsi e del collaborazionismo, ma ancora più a monte, si dimentica l’entità e la qualità della violenza fascista in generale, tema che poi è legato strettamente anche al colonialismo italiano ritenuto migliore di quello di altre potenze imperiali riconducendoci ancora una volta al tema degli italiani brava gente. Non è un caso, allora, che solo nel 1996 si sia riuscito a scoprire l’utilizzo dei gas in Africa per mano di Rodolfo Graziani.

La storiografia degli ultimi anni ha apporto dei contributi importantissimi sul tema della violenza. Sono cambiati i paradigmi con cui leggere il fenomeno della violenza della seconda guerra mondiale e si è affermata con forza la netta distinzione fra vittime e carnefici, una distinzione che ha introdotto la centralità del testimone (Annette Wieworka, L’era del testimone, 1999). Tale binomio vittima-carnefice, se offre certamente una prospettiva interessante, ha, tuttavia, generato ulteriori distinzioni interne, quasi una sorta di gerarchia tanto tra le vittime quanto tra i carnefici. E nel mettere al centro la vittima il discorso sul «cattivo tedesco» torna in quel canone. Se è possibile riscontare grandi progressi della storiografia sul tema della violenza, degli apparati repressivi, della politica coloniale, si deve però prendere atto – come storici e per di più della contemporaneità – della evidente discrasia tra i passi in avanti della storiografia e un’opinione pubblica che è ancora lontana da una presa di coscienza seria di quello che furono il fascismo e la guerra di aggressione dagli italiani combattuta.

Un’ultima riprova che, ancora una volta, fa dubitare che il fantasma del «cattivo tedesco» sia del tutto sparito è emerso con l’attuale profonda crisi economica mondiale. Non è venuto meno il collegamento, del tutto capzioso, tra i piani di Hitler e la politica economica del cancelliere Merkel la cui immagine è spesso accostata a quella del dittatore. I mezzi di comunicazione hanno spesso presentato la Germania come “cattiva” nei confronti di paesi economicamente più deboli. Spingere sulle emozioni (perché “buono” e “cattivo” a questa rimandano, a un giudizio privato e morale) e puntare ancora sul «cattivo tedesco» è ancora funzionale a giustificare scelte politiche di ben altro tipo.

Di Camilla Poesio su «Officine della Storia», n. 10, 2013

Filippo Focardi, “Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale”, (Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 308, 24 euro)

  • Melissa P., LA BUGIARDA

La bugiarda

Saranno certamente rimasti delusi in tanti dal nuovo libro di Melissa Panarello (Melissa P., La bugiarda, Fandango, Roma 2013, pp. 224, 15 euro). Chi, tratto in inganno dal titolo o prigioniero delle proprie inconfutabili certezze, immaginava di trovarvi le confessioni agostiniane di una adolescente seduttrice pentita e, al contrario, è incappato nell’ineffabile parsimonia dello scavo nel personale vissuto. Chi si aspettava – desiderava – un romanzo affollato da uomini, una sorta di riediting del libro che l’ha resa famosa (Melissa P., 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire, Fazi, Roma 2003) o una versione nostrana e aggiornata delle Memorie di una beatnik (cfr. Diane di Prima, Memorie di una beatnik, Guanda, Parma 1994, trad. italiana di Ilide Carmignani. 1a ed. originale 1969), così da sublimare l’italica passione di scrutare dal buco della serratura le vite degli altri, e si è ritrovato in un deserto di corpi, dove contano solo le sensazioni e non gli strumenti che si utilizzano per individuarle, assumerle, nutrirsene. Chi, infine, malgrado avesse intuito che l’esuberanza giovanile non costituiva forse la chiave di lettura più idonea per interpretare quello scandalo letterario di dieci anni fa, pure aveva intenzionalmente ignorato le domande che poneva, non sospettando tuttavia che quella stessa penna avrebbe potuto un giorno disegnare uno specchio davanti al quale si sarebbe passati e, a quel punto, sarebbe stato inevitabile riconoscersi.

Sì, perché «La bugiarda» è innanzitutto una biografia versatile nella quale l’autrice scopre l’espediente per invalidare l’eterna menzogna con la quale siamo stati allattati, ovverosia rivelandola, incastrandola tra le pagine di un libro, di modo che la sagacia umana non possa più dissimularla. Il suo è un idilliaco ipotetico J’Accuse che sembra ripetersi ogni qualvolta si giunga a un tornante scabroso e inconfessabile, echeggiando con cadenza ripetuta la domanda retorica “quanti di voi possono dire di non essercisi mai trovati? Quanti di non averlo mai pensato, voluto?”. È in quell’istante, in quel faccia a faccia che la sua manifesta verità diventa anche tua, che senti il bisogno di appropriartene. Ti avevano istruito sul fatto che la tua famiglia era identica a quella che vedevi nella pubblicità della Mulino Bianco, ma avevano dimenticato di precisare che il più delle volte sembra la cassa acustica di una band hard rock, che raccoglie i suoni distorti e assordanti dei singoli strumenti e li rigetta assemblati sul pubblico uditore; ti avevano spiegato che i genitori se la battevano con Gesù per forza e per amore, non avvertendoti che a volte capita di provare più pena per loro che per il tuo compagno di classe vittima della spavalderia dei coetanei e che può anche succedere, nel funambolesco tentativo di esorcizzare frustrazioni e fallimenti, che la cenere di una sigaretta non rappresenti la fine di una combustione ma la premessa di un incendio che divampa e di cui tu puoi persino essere accusato di averlo aizzato; avevi capito che i fantasmi non esistevano, che vivevano solo nelle fantasie dei bambini, ma poi hai scoperto che i mostri generati dagli adulti erano di gran lunga maggiori e più temibili.

Come giunge a scrivere un romanzo che viene venduto in oltre due milioni di copie una ragazzina di diciassette anni? Cercando la strada da sé, “partendo da sé”, come recita, del resto, il precetto femminista. Non fa nulla di diverso da ciò che il mondo circostante le aveva prescritto: cerca l’amore Melissa, quello che doveva appartenere ai genitori e che non è stato, quello di cui sono intrise larga parte delle rappresentazioni estetiche e letterarie che inevitabilmente la investono. Ma come si fa a trovare l’amore? Questo nessuno glielo aveva mai spiegato, né reso percettibile, d’altro canto. Nel prontuario sociale c’era solo scritto che era in qualche modo legato al sesso, ma in un rigido rapporto sequenziale: prima l’uno poi l’altro. “E perché?” sembra chiedersi Melissa; in fondo anche a scuola ha appreso che “cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia”, quindi? Il sesso può divenire una strada da percorrere, una ricerca da condurre, e questo sarà. La scoperta del proprio corpo, le relazioni inedite che quel mezzo è in grado di attivare, camminano di pari passo con la conoscenza di un luogo interiore e altro fino ad allora sconosciuto, prima rifugio ma, successivamente, spazio di riflessione ed elaborazione, là dove viene alla luce Melissa P., «[…] una parte di me, una porzione che gli altri assaggiavano pensando si trattasse del pasto completo. Non era una maschera. Era una parte del tutto. Un tutto che ero sempre stata abile a nascondere perché la superficie era ricoperta di ferite aperte che non potevo, non dovevo, rendere visibili. Il successo, perciò, era affare di Mellissa P. Io ero una ragazzina con i brufoli e facevo sogni magnifici» (p. 180).

L’ambito spaziale attraversa per intero il romanzo, e nei suoi frequenti passaggi è difficile che la protagonista non incontri la madre o la sua significazione: la costante ricerca di nuove abitazioni convoglia l’effimero desiderio non troppo celato di un’intera famiglia di rigenerarsi, di ri-dotarsi di una nuova identità, come se collocarsi su punti diversi delle pendici dell’Etna possa consentire di cogliere la carica palingenetica del vulcano e di scansare quella distruttiva; nel garage ci si masturba parlando al telefono col ragazzo che si era certi essere il primo amore e si iniziano a mettere in fila parole per tentare di descriverlo; nella casa dell’editore si festeggia il compleanno che avrebbe dato avvio a una carriera florida e vincente, scoprendo solo dopo che la vita sarebbe stata più complessa ma riconoscendo che lì, o da quelle parti, ci si era imbattuti finalmente in quel tanto agognato sentimento; nelle stanze d’albergo o in macchina si consumano rapporti o si sperimentano scambi, privi di ambizione o, all’opposto, grondanti di passione; gli studi televisivi che, mentre celebrano il successo editoriale, vengono trasformati ad arte in aule di tribunale dove la giuria popolare non si fa remore a vomitarle addosso tutto il suo disgusto prima di pronunciare la sentenza di condanna, e dove il conduttore – ovvero quello che l’ha invitata – indossa inaspettatamente i panni del milite della “buon costume”, del custode della moralità di Stato e, con fare sacerdotale, lancia il suo monito davanti alle telecamere: «Le bambine non fanno queste cose. Capito bambine?» (p. 194).

Il perimetro murario Melissa ha imparato a conoscerlo quindi. Una casa può essere tante cose: un recipiente ricolmo di speranze, un punto da cui ripartire, un fortino assediato entro cui rinchiudersi, una tomba in cui rimanere seppelliti per sempre. Il trasferimento nella capitale, il distacco definitivo dalla Sicilia e da ciò che è rimasto di quella costruzione ideale che chiamiamo famiglia, l’acquisto di una casa contengono da sé tutte queste possibilità e, probabilmente, alcune prendono effettivamente corpo. Ma quando si trova costretta a dover abbandonare quella confortevole zattera, Melissa non ha dubbi su cosa fare. Ha già compreso che la vita non è un flusso costante con qualche ciottolo disseminato qua e là; sa bene, adesso, che cadere e sbucciarsi le ginocchia, venire sopraffatti dagli eventi, morire e rinascere scandiscono il percorso, non altro. Le cesure, gli strappi, gli arretramenti e i balzi in avanti costituiscono i perni attorno a cui si annoda il reticolo dell’esistenza, e lei è già morta, a diciassette anni; quella casa aveva rappresentato un approdo, s’era trasformata in un monumento a una parte di sé, raccogliendo alla fine le spoglie di ciò che era stato e che, in quella forma, non era più.

Melissa Panarello ha disatteso le aspettative perché è stata in grado con questo romanzo di smarcarsi dai cliché che una cultura ipocrita e bigotta le aveva sapientemente cucito addosso; e ci è riuscita, con la capacità di scandagliare e destrutturare persistenze, senza cedere nulla della sua grazia: «Mi siedo sul divanetto di velluto rosso, accavallo le gambe e tiro giù l’orlo della gonna per nascondere le ginocchia» (p. 47).

Di Carmelo Albanese il 18/12/2013

Melissa P., “La bugiarda”, (Fandango, Roma 2013, pp. 224, 15 euro)

  • A. Gribaldo, G. Zapperi, LO SCHERMO DEL POTERE. FEMMINISMO E REGIME DELLA VISIBILITA’
Lo schermo del potere
“Olgettine”, “veline”, escort d’alto bordo e “nipoti” di Mubarak cosa c’entrano con la donna italiana? I neologismi, gli scandali e le copertine patinate della tragica ed imbarazzante epoca berlusconiana ci pongono di fronte l’imperativo di una riflessione sul ruolo del femminile nella società di oggi. Per questo, mentre ancora ci chiediamo, a un mese dalle elezioni, se il ventennio del Cavaliere possa davvero dirsi concluso, questo saggio diAlessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi è un testo necessario.Il ventennio dell’egemonia politica di Silvio Berlusconi  sembra aver mandato in malora anni di lotte femministe e il principio di autodeterminazione, costringendo migliaia di donne ad assistere alla spettacolarizzazione di una corporeità sempre più reificata, sottomessa e plasmata sui canoni imposti dal desiderio del maschile dominante. Lo “schermo del potere”, quello dei media mainstream che costringe la soggettività femminile a fare i conti con uno sdoppiamento percettivo dilaniante, è oggi più che mai un’arma utilizzata per mettere a tacere la policromia di un’identità di genere che, nel concreto, ancora resiste alla dittatura delle classificazioni.E, dato che sembra non esserci fine al peggio, gli stessi movimenti di presunta derivazione femminista (il riferimento a «Se non ora quando?» è tutt’altro che casuale) che negli ultimi tempi hanno catturato l’attenzione di molte testate e riempito alcune piazze di palloncini rosa, hanno, ahinoi, creato ben poca di quella sana conflittualità sociale utile a scardinare i cliché e i modelli proposti dal nuovo patriarcato. Anzi, secondo Gribaldo e Zapperi, proprio questi movimenti hanno alimentato l’impasse riproponendo luoghi comuni e schemi cari all’establishment ed escludendo le marginalità dei soggetti precari e migranti dalla propria “causa”.Lo dicevamo, non c’è fine al peggio. Non stupirà quindi che, secondo l’analisi delle autrici, anche la parentesi del governo tecnico, quella che ha proposto all’immaginario la figura della donna forte al potere (alla Elsa Fornero, per intenderci) può essere letta come abile tattica utilizzata per mettere a tacere ogni contestazione inerente le relazioni di genere e per deviare l’attenzione da un contesto sociale in cui le donne sono le prime vittime del sistema di precarizzazione del lavoro.La fine del peggio, però, dicono Gribaldo e Zapperi, possiamo stabilirla noi, donne e uomini. E a ben guardare, con gli occhi ancora luccicanti per un po’ di sano ottimismo, esiste la strada dell’auto-rappresentazione. Solo così è possibile riabilitare la figura della donna e farlo in maniera inclusiva, adottando cioè la prospettiva di tutte le altre soggettività marginali che “lo schermo del potere” occulta e discrimina.
Di Nicoletta Mandolini su La Bottega di Hamlin del 25 gennaio 2013
A. Gribaldo, G. Zapperi, “Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità”, (Ombre Corte 2012, pp. 123, euro 13)
  • D. Demetrio, F. Rigotti, SENZA FIGLI. UNA CONDIZIONE UMANA

Senza figli. Una condizione umana

Egoisti narcisi, Peter pan incapaci di amore e generosità? Tutto il contrario: chi non ha figli accetta la più grande delle frustrazioni narcisistiche, esponendosi a una cronica mancanza di gratificazioni: magari per ragioni altruistiche, prendersi cura dei figli di altri; oppure ideali, per non sovrappopolare ulteriormente il pianeta.

In un pamphlet scritto a quattro mani, “Senza figli. Una condizione umana” (Cortina editore), i filosofi Duccio Demetrio e Francesca Rigotti, rispettivamente uomo senza figli e donna con quattro figli, riprendono le tesi della scrittrice e psicanalista francese Corinne Maier nel suo “No Kids. Quaranta ragioni per non avere figli“, edito in Italia da Bompiani nel 2008 (“Il figlio? Un fallo ambulante, un oggetto magnifico che ci riempie, un puro oggetto capitalistico”). Per lanciare, però, una provocazione di tono diverso: perché il libro non è né un manifesto del “childless pride“, né tantomeno una satira amara sulle spesso poco nobili gesta dei genitori, ma un’indagine sulleimplicazioni filosofiche di un tema che “risveglia una marea di riflessioni sui limiti e le impotenze umane, sulle ferite segrete e palesi che tale assenza genera”.

“Non esiste una parola per dire qualcosa come “orfano” di figlio, una parola per un figlio morto o partito. Si può dire “vedovo” o “vedova”, e la casistica è già finita”. Oppure utilizzare un termine stigma, come “sterile, infecondo, sterile, freddo, spento, asciutto, vuoto”. Il vuoto lessicale, secondo i due autori, già racconta di una civiltà che neanche riesce a pensare chi i figli non li ha (pur avendo esempi illustri di eroi che non hanno avuto prole, come Cristo). Eppure le donne italiane – e pure gli uomini, mai citati nelle statistiche – non solo fanno figli più tardi, ma soprattutto ne fanno sempre meno. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istat (2012), solo la metà delle attuali quarantenni ha avuto un secondo figlio, e circa il 10% ne ha avuto un terzo (mentre per le loro madri alla stessa età ben sette donne su dieci avevano il secondogenito e la metà anche un terzo figlio in più). Circa il 20% delle donne nate negli anni Settanta, inoltre, resterà senza figli.

Pur non subendo più antichi “ostracismi millenari” e anche se, finalmente, oggi non si fanno più figli solo “per obbedire ai dettami di una divinità, di un obbligo statale, di un’ingiunzione domestica”, essere senza figli è tutt’oggi considerato un problema, una condizione patologica da curare con una medicina violenta e invasiva. Al contrario, sostengono i due filosofi, la presenza di persone che restano senza figli, per scelta o necessità (o perché i figli a un certo punto se ne vanno per sempre) è persino terapeutica, perché segnala un vuoto che contrasta con “la civiltà della pienezza e della sazietà”.

Di fatto, le persone senza figli si fanno carico permanente delle nostre più grandi paure: quella della solitudine, accettando di andare incontro a una vecchiaia in cui a curarti saranno “volti estranei e anonimi, pagati probabilmente poco per questo”. E quella del lutto, “non per ciò che hai perso, ma per quanto non hai potuto conoscere”, in una società dove è sempre più difficile fare i conti con il tema della fine. “La mancanza di figli è un tatuaggio indelebile altrettanto vibrante da proteggere, senza fingere di poterlo raschiare via. È inutile andare a cercare qualche unguento, per dimenticarlo. Questa lacuna rappresenta la prova stessa della verità più autentica della nostra condizione umana. Condivisa, forse inconsapevolmente, da tutti i padri reali, mancati o simbolici del mondo”.

Di Elisabetta Ambrosi su Il Fatto Quotidiano del 02/11/2012

D. Demetrio, F. Rigotti, “Senza figli. Una condizione umana”, (Raffaello Cortina Editore 2012, pp. 268, euro 16)

  • G. Santoro, UN GRILLO QUALUNQUE. IL MOVIMENTO 5 STELLE E IL POPULISMO DIGITALE NELLA CRISI DEI PARTITI ITALIANI

È in libreria soltanto da due settimane, ma ha già attirato l’attenzione di quotidiani, blog, radio, tivù. Complice il successo dei 5 Stelle in Sicilia, certo, ma soprattutto grazie all’analisi profonda e multiforme che Giuliano Santoro ha dedicato a Grillo e al suo movimento. Un’analisi che riesce ad essere, nello stesso tempo, mirata e di ampio respiro, capace di prendere il largo a partire dal suo oggetto di indagine, per illuminare temi e questioni che spesso hanno fatto capolino anche qui su Giap: dalla “cultura di destra” al feticismo digitale, dal razzismo alle narrazioni tossiche. Nei ringraziamenti finali, l’autore cita pernickname alcuni giapster molto assidui e in generale tutta la comunità che si ritrova in questo blog, per avergli fornito un terreno di confronto. L’intervista che segue vuole essere anche un’opportunità per riprendere e rilanciare la discussione.

Una delle caratteristiche più interessanti del libro è la sua capacità di smontare alcune presunte “novità” del Movimento 5 Stelle, per tracciarne la genealogia e svelarne il contenuto ideologico. Al netto di questo prezioso lavoro, resta però uno scarto davvero inedito per il panorama politico italiano: quello di un movimento che partecipa alle elezioni senza candidare la sua personalità più in vista. Questo aspetto mi pare una novità anche rispetto al populismo, che tu definisci come “la capacità da parte di un leader di costruirsi attorno un «popolo» che gli corrisponda in pieno, mortificando le differenze e appiattendo le ricchezze”. Il leader populista, al momento delle elezioni, diventa così l’insostituibile candidato della sua gente. Grillo invece si sottrae, fa il “garante” del movimento: che ne pensi di questa sua rottura del rapporto classico tra capo e popolo?

Lo scarto di cui parli è uno dei tanti paradossi del grillismo. Provo a descriverlo: nell’era della crisi della rappresentanza politica, e della sua incapacità – diciamo così – di far da contrappeso al mercato, ecco che spunta un movimento carismatico che in nome della “democrazia diretta” (concetto che, come spiego nel libro, viene utilizzato come feticcio ideologico) punta tutto sulle elezioni per costruire il rinnovamento. È una contraddizione non da poco: Grillo all’inizio degli Anni Zero affrontava i grandi temi della globalizzazione, del global warming e della guerra spiegandoci che contava di più il modo in cui si faceva la spesa che la scheda che si metteva nell’urna. Era un modo per ribadire che il vero potere si trovava altrove, nel mercato e nelle multinazionali, e che i partiti erano solo sovrastruttura. E invece, negli ultimi due anni, siamo arrivati al punto che il Movimento 5 Stelle non fa altro che organizzare campagne elettorali permanenti, compilare liste di candidati, polemizzare con gli altri partiti. Paradosso nel paradosso: Grillo – capo carismatico, trascinatore di masse e fondatore del Movimento – almeno per il momento non si candida e anzi trae forza da questo non mescolarsi con “la politica”. Ciò forse avviene perché in questo modo è come se tutti i candidati fossero Grillo. A meno che qualcuno non sia così ingenuo da pensare che i voti li prendono i cittadini che spauriti compaiono a fare da scenografia ai comizi-spettacolo del comico-leader.

Marco Vagnozzi, consigliere 5 Stelle a Parma,  ha dichiarato che “Beppe è il padre del Movimento”. Un padre che a volte si comporta da padrone (il simbolo del movimento è di sua proprietà) e altre da nonno (non partecipa alla contesa elettorale – tipico atteggiamento del vecchio che “ha già dato” – e manda i figli allo sbaraglio). Su Giap abbiamo a lungo discusso intorno alla “evaporazione del padre” nella politica italiana. Una politica nella quale non è possibile rintracciare in maniera chiara le due metafore familiari con cui Lakoff spiega il bipolarismo americano: da una parte il Padre Severo – cioè il partito repubblicano – dall’altra i Genitori Comprensivi – ovvero i Democratici.
Abbiamo visto come Berlusconi ha colmato questo vuoto con il vuoto del godimento obbligatorio. E Grillo? Che tipo di (non-)padre è? Un padre adottivo? Un tutore di orfani?

Tentando di illustrare cosa ci fosse davvero all’origine di quella «comunità immaginata» che chiamiamo nazione moderna, Benedict Anderson ha spiegato che essa è un «artefatto culturale di un particolare tipo» che rimette in moto anche i meccanismi di appartenenza ancestrali (ed escludenti) che tengono in piedi la famiglia. Dunque, la nazione di Anderson viene descritta come «organismo sociologico che si muove ordinatamente in un tempo vuoto e omogeneo» e funziona come la famiglia allargata ma in fondo tradizionalista di Papi-Berlusconi: attraversa le differenze e inventa storie e tradizioni a uso e consumo del consenso.
Giustamente tu ricordi come il linguista George Lakoff abbia sostenuto che questo richiamarsi ai rapporti familiari appartiene a una sfera inconscia molto profonda, tanto che la politica conservatrice e quella progressista sarebbero legate a due modelli diversi di vita coniugale.

Umberto Saba affermava che solo col parricidio inizia una rivoluzione – e questo ci fa pensare anche a una celebre teoria freudiana. Ma, proseguiva il poeta triestino, siamo nel paese delle mancate rivoluzioni perché «gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli». Tutto ciò ha a che vedere col padre severo e con i genitori premurosi di Lakoff, ma riguarda anche il «Papi» del Ventennio breve berlusconiano, soggetto complice, un po’ morboso e – in quanto per alcuni aspetti oltre i generi, glabro come Lele Mora e il nostro Silvio – forse anche materno. In questo quadro, Beppe Grillo è lo zio che appare permissivo ma che non consente che si vada oltre una certa soglia di libertà. Grillo è quello che ci porta in giro a trasgredire, ma solo dentro il recinto che lui stesso ha costruito. Nello specifico, come spiego nel libro analizzando le vicissitudini dei 5 Stelle, questo confine è stabilito in termini tematici e geografici. In termini geografici, ognuno deve restare sotto il suo campanile : ai grillini è fatto divieto di costruire organizzazioni nazionali e coordinamenti tra diversi territori (quando ci provò,Valentino Tavolazzi venne epurato). In termini tematici, l’unica arma mediatica che detta l’agenda e la linea del Movimento 5 Stelle è il sito di Beppe Grillo. Ecco perché il Nostro non tollera che si vada in televisione.

Ho trovato molto interessante la tua analisi di alcune sconfitte elettorali del M5S. Dai comuni della Val Susa alla Vicenza dei No Dal Molin, dalla Milano di Pisapia alla Napoli di De Magistris, appare chiaro che i Cinque Stelle si trovano in grave imbarazzo di fronte a due componenti: un movimento territoriale forte e la candidatura di outsider che rompono il frame “Grillo contro La Casta”. In un certo senso, credevo che questo schema fosse valido pure a livello nazionale: di fronte al montare della crisi economica e all’avvento di Monti, nel novembre 2011, Grillo è rimasto interdetto, balbettante. Poi però si è ampiamente ripreso: la crisi non molla, Monti è ancora lì, eppure il M5S ha sondaggi che lo danno al 20% sul territorio nazionale. Come ti spieghi questa sua forza montante?

Quanto a Vicenza e Val Susa, la risposta è semplice: dove ci sono movimenti veri, i grillini non attecchiscono, o almeno non sfondano “a sinistra”. Qualcuno potrebbe pensare che nelle terre dei No Tav è successo esattamente il contrario, ma non è così: in Valle le liste a 5 Stelle hanno preso molti voti alle regionali, ma a quei voti non corrisponde mobilitazione reale. Mi sembra che quella di votare Grillo e non votare (come in molti avevano fatto) i partiti della fu sinistra, sia stata una scelta tattica da parte di una parte di un movimento autonomo e autorevole, che non si fa incantare da Grillo anche se per certi versi gli è riconoscente per aver parlato delle ragioni contro l’Alta Velocità quando non ne parlava nessuno.
Veniamo a Monti. Grillo dapprima è rimasto spiazzato perché il presidente del consiglio proponeva soluzioni “né di destra né di sinistra” e commissariava la politica, rompeva gli schemi dei suoi monologhi elettorali. Poi ha prevalso un’altra immagine, quella di un governo sostenuto praticamente da tutti i partiti presenti in parlamento, una sorta di ammucchiata della “Casta” contro la “Gente”. Il fatto che i partiti abbiano abdicato prima ai diktat della Banca centrale europea e poi al commissariamento impostole da Napolitano e Monti, in parallelo al crollo della Lega e del Pdl, hanno creato le condizioni per il boom elettorale del Movimento 5 Stelle.
Il risultato è, ancora una volta, paradossale: in tutta Europa, e anche negli Stati Uniti per certi versi, la gente protesta contro le politiche di austerità, tenta di organizzarsi dal basso per rompere la gabbia dei sacrifici. In Italia, dove pure abbiamo una certa tradizione quanto a movimenti sociali, tantissime delle persone che potrebbero mobilitarsi si limitano ad aspettare il giorno delle elezioni, per poter sostituire quelli della “Casta” con altri eletti, che peraltro non si sa come vengano scelti e messi in lista. Come se questo davvero potesse cambiare la situazione.
Anche a questa contraddizione è legata l’urgenza di scrivere questo libro, che si rivolge a tutti quelli che orientano la loro rabbia verso obiettivi sbagliati e alla ricerca di soluzioni inesistenti. Grillo non è la risposta giusta perché risponde ad una domanda erronea in partenza. Grillo non risponde alla domanda “Come facciamo a costruire altre relazioni di potere e di produzione?”. Oppure, non si chiede: “Come si fa a ottenere una più equa distribuzione della ricchezza?”. La domanda alla quale risponde Grillo è “Come si fa ad andare nei palazzi del potereal posto di quelli là?”.

Si sente dire spesso che il M5S è un prodotto della Rete, di un nuovo modo di comunicare e coinvolgere, del fantomatico “popolo di Internet” emerso negli ultimi anni. Tu invece metti in stretto rapporto la “neotelevisione” che ha plasmato Grillo (con Antonio Ricci in prima fila) e la retorica partecipativa del web 2.0. E’ spiazzante ricordare come Nino Frassica, il “bravo presentatore” di Indietro Tutta, facesse la satira di una certa mentalità già nel 1988: “grazie a chi ha partecipato, e anche a chi non ha partecipato, perché la trasmissione la fate voi da casa”. L’accento sul “tu”, sul consum/attore, sul “prosumer” pervadeva la logica dei media già molto tempo prima che Time scegliesse “You” come personaggio dell’anno (2006). Il diffondersi del web ha ingigantito questa logica, presentandola tout court come un meccanismo liberante, come un dispositivo che genera di per sé “intelligenza collettiva”, collaborazione, qualità. Una certa “mistica della Rete” attraversa così progetti molto diversi e distanti nel tempo: dalla rivista Decoder a Indymedia, da Wikipedia al Movimento 5 Stelle. Dove stanno, secondo te, le principali differenze?

Intanto c’è una differenza numerica: i primi nodi della rete telematica italiana appartenevano al mondo underground, erano avanguardie di un movimento e spesso venivano dalla stessa cultura. Conservo i numeri di Decoder con devozione e devo dire che, al netto di qualche entusiasmo eccessivo per le nuove tecnologie, quella rivista aveva avuto la capacità di cogliere le possibilità della telematica, prima ancora di Internet, legandole ad un’analisi avanti rispetto ai tempi sulla composizione sociale e produttiva nel nostro paese. Allo stesso modo, al netto di tutti i limiti, non possiamo negare che col movimento di Seattle Indymedia ha rappresentato un esperimento imprescindibile per fare informazione dal basso.
Il problema nasce quando la massa entra in Rete. Perché lo fa proprio in quanto “massa” indistinta, senza coscienza di essere “parte” o di rappresentare un preciso interesse o almeno una determinata cultura. Non è un caso che molti dei grillini della prima ora rivendicassero di rappresentare il 100 per cento della popolazione italiana. Una pretesa che aveva e ha qualcosa di inquietante.
Mi viene in mente “Reality”, l’ultimo film di Matteo Garrone. Racconta in maniera molto plausibile, con estremo realismo, la storia di un uomo che lentamente, in maniera impercettibile e quasi senza che i suoi familiari se ne accorgano, scivola verso l’ossessione per l’apparire. L’unica ad allarmarsi è la moglie del protagonista, tutti gli altri proseguono l’attività quotidiana e le dicono “Ma no! Poi gli passa”, oppure addirittura assecondano il delirio dell’uomo, incoraggiandolo a perseguire l’insano proposito di divenire finalmente qualcuno passando per il tritacarne del protagonismo mediatico.
C’entra tutto questo con la “mistica della Rete”? Secondo me sì. Perché dal punto di vista culturale, non tecnologico, un nuovo mezzo di comunicazione si afferma solo quando è in grado di rispondere alle domande che aveva suscitato quello precedente. Questo avviene oggi con il Web 2.0 in relazione alla televisione. Saremmo degli ingenui se pensassimo che un paese che per trent’anni è stato egemonizzato dal piccolo schermo all’improvviso diventasse il laboratorio della comunicazione interattiva. Ed è una menzogna dividere con l’accetta i media, come fa Grillo, dicendo che da una parte c’è “la Rete” e dall’altra “la Televisione”. I media si muovono nello stesso ecosistema.
Ogni giorno 14 milioni di italiani, un numero impressionante, si collega a Facebook e si mette in questa gigantesca vetrina. Pensano di diventare famosi? Ovviamente no. Ma giocano a esserlo. Allo stesso modo, molti giocano a fare laRivoluzione a 5 Stelle, postano messaggi indignati, si mostrano attenti alle cause più disparate. Non tutti saranno prigionieri di questo schema, ma io penso che per la maggior parte degli elettori che ha prodotto il boom elettorale di Grillo sia così. Tant’è vero che all’esplosione di consensi per il M5S non ha corrisposto un aumento dell’attività dei MeetUp o una maggiore partecipazione dal basso. È solo questione di rappresentazione e voti, cioè di delega e non di reale democrazia diretta.

Poche settimane fa, parlando con WM4, ci dicevamo che soltanto in Italia poteva arrivare un comico ad occupare il vuoto politico creato dalla combinazione di crisi economica e crisi della rappresentanza. In altri paesi europei quello stesso vuoto è stato sfruttato da formazioni di estrema destra, ma pur sempre “interne” al sistema dei partiti e senza eccessivi personalismi. Da noi – ci dicevamo – la cultura democratica è più debole e la voglia di leader spettacolari è sempre molto forte. Leggendo il tuo libro mi sono accorto che quella conclusione, tirata giù in due minuti, era doppiamente sbagliata. Da un lato ci sono le affermazioni elettorali dei Pirati tedeschi, una formazione radicalmente diversa dai partiti tradizionali, per quanto priva di un leader carismatico paragonabile a Grillo. Dall’altro c’è l’esempio di Coluche, il comico francese che nel 1981 si candidò per l’Eliseo (con il sostegno di Gilles Deleuze) e nel 1985 recitò con Grillo in “Scemo di Guerra”. C’è qualcosa di simile tra queste due esperienze e il M5S, oppure è tutta un’altra storia?

Intanto una premessa. Grillo dice: “Ringraziate che ci sono io, altrimenti ci sarebbero stati i neonazisti”. Ora, a parte il fatto che non ci vuole molto ad essere “meglio dei neonazisti”, e su questo concorderebbe chiunque appartenga al consesso civile, questa è più un’affermazione minacciosa che rassicurante. Come a dire “Li tengo a bada io, questi disperati”. Se fossi un elettore dei 5 Stelle mi incazzerei.
Il Partito Pirata ha molte analogie con il Movimento 5 Stelle. C’è la grossa differenza della struttura proprietaria e verticistica messa in piedi dallo Zio Beppe. Ma li accomuna un’ideologia profondamente liberista. Sia i grillini che ipiraten, in fondo, pensano che la Rete serva a ristabilire la libera concorrenza, che in questo spazio virtuale si possa realizzare l’utopia liberale della “mano invisibile” che premia i più meritevoli e fa vincere la “verità”. Ancora una volta: non esistono classi, rapporti di forza, conflitti. Esistono solo individui che finalmente avrebbero opportunità di realizzarsi. Quelli del Partito Pirata, ad esempio, sono a favore del reddito minimo garantito perché sostengono che questo permetterebbe a chiunque di concorrere sul mercato in maniera più efficace. Il reddito non è un diritto, è uno strumento per perfezionare il funzionamento della libera concorrenza.
Citi poi l’esempio di Coluche. Sicuramente il comico francese ha influenzato Grillo e come ricordavi i due hanno avuto anche occasione di conoscersi. Coluche annunciò la sua candidatura nel contesto francese di crisi economica e politica che poi aprì le porte all’era del socialista Mitterrand. Senz’altro utilizzò la sua fama e la sua abilità attoriale per arrivare al 16 per cento nei sondaggi, ma non si mise in testa di costruire una vera e propria organizzazione politica. Oltretutto Coluche era uno che, per capire il suo spirito provocatorio, usava le strisce di cocaina come segnaposto. Grillo al contrario è in fondo rassicurante, non nasconde mai la cultura piccolo-borghese dalla quale proviene. Tutt’al più dice qualche parolaccia. La candidatura di Coluche serviva a rompere gli schemi, non a costruire un altro potere. Credo che in questo senso sia stata appoggiata da fior di intellettuali come Deleuze, Bordieu o Touraine. Da questo punto di vista, la discesa in campo di Coluche ricorda quella di Jello Biafra, il cantante dei Dead Kennedys che nel 1979 si candidò a sindaco di San Francisco, arrivando quarto con oltre il tre per cento dei voti. Il suo programma prevedeva ad esempio che, in tema di “sicurezza dei cittadini”, i poliziotti utilizzassero costumi da clown al posto della divisa o che i detenuti venissero trasferiti nei campi da golf della contea per facilitarne la riabilitazione.

A proposito di comicità, c’è un paragrafo molto importante del libro dove utilizzi Eco, Bartezzaghi, Serra e Pirandello per spiegare come Grillo possa tramutare la cassetta degli attrezzi del comico in macchina elettorale. Poiché la comicità si basa sulla sintesi e la semplificazione, Grillo è libero di semplificare a tutto spiano, e dunque di liberarci dal peso della complessità. Allo stesso tempo, in quanto comico, non deve rispondere delle sue banalizzazioni, ha una sorta di immunità teatrale. Inoltre – scrivi citando Eco – la risata del comico è causata da una trasgressione per interposta persona. Presuppone l’esistenza di una regola, molto ben radicata, e poi la trasgredisce per conto del pubblico. Funziona quindi in base a un meccanismo di delega e all’istituzione di una gerarchia. Per questo, a differenza della tragedia, la comicità non sarebbe davvero catartica e liberatoria. Su questo punto non sono del tutto d’accordo: certo finché sono seduto in poltrona, a teatro, delego il comico a dissacrare per conto mio, ma una volta che mi alzo e torno per strada, non è detto che quanto ho visto e sentito non mi responsabilizzi, proprio perché sul palco non c’è più nessuno, e dunque la delega non funziona più: tocca a me trasgredire. Il problema mi sembra nascere quando il ruolo del comico deborda e diventa leader politico, fondatore di un movimento. Allora anche la delega deborda e investe l’agire politico di chi si riconosce in quel capo carismatico. Chiediamo al comico-leader di trasgredire le regole al posto nostro, così come chiediamo all’eroe-leader di aver coraggio al posto nostro, e al magistrato-leader di fare giustizia al posto nostro. Ma è il farsi leader, la personalizzazione, che attiva le tossine insite nel comico, nell’eroe, nel magistrato e in molte altre maschere della commedia umana. Tu che ne pensi?

Attenzione. Ovviamente non sostengo che la comicità sia in sé una forma di deresponsabilizzazione. Bisogna inserire quel paragrafo nel contesto del ragionamento più ampio, che va oltre Grillo. Dopo l’ennesimo dibattito tra Barack Obama e Mitt Romney, allo scrittore statunitense Paul Auster è stato chiesto cosa ne pensasse, come era andata… Auster ha risposto più o meno così: “Non parliamo di politica o di contenuti, si tratta di commentare unaperformance attoriale”. Nel libro cito il memorabile speech di Arthur Millersul rapporto tra il mestiere di politico e quello di attore, che è illuminante da questo punto di vista. Pensiamo alle primarie del Pd e a come è stato rappresentato lo scontro tra i due principali contendenti: da una parte c’èMatteo Renzi, un candidato che ha debuttato come concorrente de “La Ruota della Fortuna” e che ha scelto come spin doctor uno degli artefici della televisione berlusconiana come Giorgio Gori.

Dall’altra c’è Pierluigi Bersani, che viene da un altro mondo, quello del Pci emiliano e delle riunioni di partito, ma che è stato umanizzato dalle battute diMaurizio Crozza (il tormentone “Ma ragassi, siam mica qui a smacchiare i leopardi” e via metaforizzando). Bersani ha scelto come portavoce Alessandra Moretti, che i giornali accostano al mito di bellezza degli anni Ottanta Carol Bouquet e che proprio pochi giorni fa ha mostrato ai cronisti le foto del segretario Pd da giovane e ha detto “Non sembra Cary Grant?”.

Tutto questo per dire che la relazione, sempre esistita, tra recitazione e politica va infittendosi sempre di più. Grillo è un effetto di questo meccanismo, non la causa. Dunque – ed eccoci alla comicità – avanzando nel ragionamento arrivo a chiedermi: come mai il primo attore che diventa leader politico (e non come di consueto il politico che deve anche imparare a fare l’attore) è proprio un comico? La risposta è quella che sintetizzavi tu. Da una parte la comicità è sempre a rischio populismo perché una battuta funziona quando è semplice e comprensibile e uno dei tratti del populismo è proprio il rendere semplici i problemi complessi. Dall’altra, ridere significa delegare la trasgressione. Rido perché qualcuno fa una cosa che io non farei mai: tirare la torta in faccia a qualcun altro invece di mangiarla o mandare a quel paese il potere. Quindi quella risata, paradossalmente, rafforza la regola invece di metterla in discussione. Se la regola sottesa (le torte si mangiano e non si tirano in faccia al primo che passa e il potere non si manda a quel paese) fosse messa in discussione il comico non farebbe più ridere. Non avrebbe motivo di esistere.

Basta con le supercazzole! Che 2 palle!!1!! Uno ke fa le domande per sembrare intelligente, l’altro che gli risponde per far vedere che ce l’ha più lungo…Ma chi siete, i Qui Quo Quà? Dite che Beppe è un comico e dice le cose semplici: ma allora com,é che voi professorini non ce state a capì un cazzo? Ad esempio tutta la menata sulle idee senza parole di Furio Yesi, un tizio che nessuno lo conosce, ma siccome piace ai wuminkia allora pioace pure a Santoro (SVEGLIA!!!Lo sanno tutti che siete amichetti, basta fare una ricerchina in rete: vi recensite i libri a vicenda e frequentate gli stessi salotti). Idee senza parole. Se Grillo c’ha un difetto e quello che parla, parla, parla pure troppo…Come fa ad avere idee SENZA parole? Me lo fate un esempio? Perché secondo me è l’incontrario, siete voi che c’avete parole senza idee, sembra che dite un sacco di cose e invce poi non dite un bel niente. Ma tanto rassegmnatevi: in Rete la verità viene sempre fuori, è dimostrato.

Il libro contiene una specie di disamina dello schema argomentativo (che si ripete sempre uguale) del troll grillista. È uno schema che ha dato vita anche a un gruppo su Facebook che parodizza le campagne emozionali di Grillo e che si chiama “Siamo la gente, il potere ci temono”. Il blogger (e giapster) Jumpinshark ha scritto una vera recensione di Un Grillo Qualunque utilizzando questo linguaggio.
Proprio ieri ho partecipato ad un dibattito televisivo su Beppe Grillo. In studio c’era anche un grillino, un imprenditore del varesotto ex leghista e forzitaliota che ora aveva scelto la causa del Movimento 5 Stelle. Quando la conduttrice gli ha chiesto cosa del programma di Grillo lo convincesse particolarmente, lui ha risposto (cito a memoria): “Ci ha fatto vedere la luce. Per noi Grillo è una luce in fondo al tunnel”. Pochi minuti fa, invece, una elettrice grillina mi ha scritto su Facebook che “La democrazia partecipata è un concetto unitario e unificante”. Ecco degli esempi di “idee senza parole” dei grillini. Alla radice della loro ideologia pret-a-porter c’è qualcosa di inspiegabile, inesprimibile, irrazionale. Altro che intelligenza collettiva: Grillo muove emozioni, dà vita ad un impasto di politica, spot pubblicitari e sentimenti che ricorda il ragionamento di Furio Jesi di cui avete scritto più volte su Giap. Non a caso Jesi utilizza il concetto di “idee senza parole” utilizzato da Spengler anche per ragionare della civiltà dei consumi, degli spot pubblicitari, dei romanzetti rosa di Liala.

Nelle conclusioni del libro scrivi: “Peccheremmo di schematismo se dicessimo che Beppe Grillo è la prosecuzione di Berlusconi con altri media”. Primo, perché il blog di Grillo è un esempio di “uso televisivo della rete”, comunicazione verticale con una spruzzata di partecipazione (i commenti, dove peraltro il comico non interviene mai). E secondo? Giorni fa Vittorio Feltri ha sostenuto che il Berlusconi degli esordi non è nemmeno paragonabile a Grillo, ma che ogni epoca ha il suo Berlusconi, e in questa ci beccheremo Grillo. Quindi, senza peccare di schematismo, il paragone ti sembra fattibile oppure no?

Non è la stessa cosa, ma le analogie ci sono: il partito-azienda privato, l’utilizzo degli schemi televisivi e dei video fatti in casa per parlare agli elettori, l’utilizzo del Corpo per superare la divisione tra Politica e Intimità (la traversata dello Stretto di Messina a nuoto compiuta da Grillo ha molto a che fare con il reality show sul Corpo di Silvio mutante). Il problema è che abbiamo chiuso frettolosamente l’era berlusconiana, non abbiamo capito cosa abbia significato davvero, che scorie culturali abbia lasciato nel nostro paese. E quindi ci troviamo ad avere un oppositore che forse opera in modo diverso ma sicuramente si muove, come direbbe Vincent Vega in Pulp Fiction, “nello stesso fottuto campo da gioco”.

Per chi vuole farsi un’idea delle reazioni, recensioni, interviste e approfondimenti che sono fioriti in queste due settimane intorno a Un Grillo Qualunque, Giuliano Santoro ha messo insieme un breve indice sul suo blog.

Intervista di WM2 su Giap dell’08/11/2012

G. Santoro, “Un Grillo qualunque. Il Movimento 5 Stelle e il populismo digitale nella crisi dei partiti italiani” (Castelvecchi 2012, pp. 180, euro 16)

  • P. Ferrero, PIGS! LA CRISI SPIEGATA A TUTTI

Falso. Vi dicono che la crisi è il problema del debito pubblico? Falso. Vi dicono che facendo i tagli si esce dalla crisi? Falso. Vi dicono che riducendo salari e diritti si esce dalla crisi? Falso.

Tutto quello che vorreste sapere sulla crisi e nessuno vi ha mai detto, qui lo trovate. In questo libro di Paolo Ferrero fresco di stampa – “Pigs!”, DeriveApprodi, pag. 210, euro 12 – molto eloquente già a partire dal titolo (notate il punto esclamativo…), corredato da quattro facce “emblematiche”, Monti Merkel Fornero Draghi… Sì, un libro di contro-informazione. Se volete, un manuale di autodifesa, potete tenerlo come libro da comodino, pronto all’uso.

Le frasi sopra riportate tra virgolette sono in realtà tre dei 16 brevi capitoli in cui il volume è suddiviso: un rapido excursus dentro i meandri della crisi, che analizza e “rovescia”, uno per uno, tutti i luoghi comuni coi quali il Potere, coadiuvato dalla bocca di fuoco dei mass media, erudisce (inganna) il pupo. Cioé noi, tutti noi, the People.
Tra fine novembre 2008 e marzo 2010, la banca centrale guidata da Ben Bernanke “stampò” (virtualmente) 1425 miliardi di dollari e acquistò titoli legati al mercato immobiliare. Quello fu il cosiddetto “QE1”. Poi tra fine 2010 e metà 2011, la banca centrale di Washington lanciò il “QE2”. Tranquilli, nel libro di Ferrero non troverete nemmeno un rigo riconducibile al linguaggio per addetti ai lavori, criptico, falsamente misterioso, creato su misura perché i più, tutti noi, non ci capiscano un’acca.
No, il linguaggio del libro (un pregio non da poco) è semplice, facile, su misura perché i più, tutti noi, ci capiscano e bene.
Un libro per tutti; gli arcani della Crisi svelati finalmente senza le formule degli apprendisti stregoni. Svelati, e addirittura intelleggibili! Addirittura “semplici”, Watson.
Per esempio. Prendete uno dei luoghi comuni più gettonati, “i mercati ci guardano”. Dei mercati finanziari si parla come di un fenomeno naturale, come del sole o di un terremoto, contro cui non si può fare nulla – scrive Ferrero – Per certi versi vengono rappresentati come una specie di divinità, tanto potente quanto facile all’ira, verso cui l’unico atteggiamento possibile è quello dell’accondiscendenza. Già, ma “i mercati”, loro, “chi” sono? Pensateci bene e vedrete che nessuno – né giornali né telegiornali – non ve l’hanno mai spiegato, “chi” sono, “i mercati”. Ebbene, potete saperlo, andate a pag. 69 di “Pigs”. Nel 1984 le prime dieci banche al mondo controllavano il 26% del  totale delle attività finanziarie. Ma attraverso una serie impressionante di fusioni bancarie, una media di 440 all’anno, il potere delle Dieci è aumentato a tal punto (il libro riporta dati dell’Ufficio del Tesoro americano), che al primo trimestre 2011 cinque Sim (Società di intermediazione mobilliare) che rispondono al nome di J.P. Morgan, Bank of America, City-bank, Goldman Sachs, Hsbc Usa; e cinque banche, Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Paribas, controllavano oltre il 90% dei titoli derivati. Cioé il 90% delle attività finanziarie globali, il che vuol dire che se quei Dieci si  mettono d’accordo possono fare il bello e il cattivo tempo. Ecco, segnate sul vostro taccuino quei Dieci nomi e avrete l’identità dei famosi “mercati”.
Per esempio, “Facciamo come in Danimarca”, bello vero?, è un altro dei luoghi comuni che ci propinano: in salsa “flexsecurity”, variante danese proposta come alternativa da chi vuole fare piazza pulita dell’art. 18. Falso. Se non altro perché in Danimarca il tasso di occupazione è dell’80%, in Italia meno del 57%; e magari perché la Danimarca è un posto dove se sei licenziato hai diritto a un salario di disoccupazione per quattro anni, in Danimarca.
Punto per punto, lo smontaggio dei luoghi comuni, delle menzogne, delle ipocrisie, dei falsi idola coi quali sperano di farci ingoiare lacrime e sangue – la mazzata e la beffa – prosegue con argomentata semplicità e chiarezza. Siamo al tempo del “Pensiero unico” (il loro), della rivoluzione che trionfa (la loro, quella turbo-finanziarcapitalistica), della Internazionale (la loro, via globalizzazione), della più gigantesca “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite” (diceva un certo Marx…).
Socialismo o barbarie, la via d’uscita c’è, pressoché obbligata; e l’ultima parte è dedicata appunto a questo tema. Per esempio, cosa fare in Europa; per esempio, come realizzare un New Deal di classe in Italia, al tempo dell’euro che sta per saltare in aria; al tempo di Marchionne, di Monti, di Bce, di fiscal compact, di Troika e altri mostri.
Zero coupon, Il Fondo avvoltoio, Finanza con delitto, Nido di vipere:sono solo alcuni titoli dei “financial thriller”, la collana di romanzi noir ambientati nel mondo dell’alta finanza edita alcuni anni fa dal “Sole24ore”. Ebbene, la serie di delitti e misfatti – veri, non inventati! – che “Pigs!” enumera e descrive ne fa anche un noir (sia pure involontario).
Buono anche come “libro per l’estate”.

Di Maria R. Calderoni sul sito di Rifondazione del 29 luglio 2012

P. Ferrero, “Pigs! La crisi spiegata a tutti” (DeriveApprodi 2012, pp. 210, euro 12)
  • M. Franzinelli, AUTOPSIA DI UN FALSO. I DIARI DI MUSSOLINI E LA MANIPOLAZIONE DELLA STORIA
Autopsia di un falso. I diari di Mussolini e la manipolazione della storia (Bollati Boringhieri 2011, pp. 278, euro 16) di Mimmo Franzinelli è un saggio storico sulla complicata vicenda della costruzione, del tentativo di vendita e di speculazione, di alcuni volumi dei supposti diari di Mussolini, e insieme un’analisi del testo di questi diari recentemente messi in circolazione da un importante editore italiano, malgrado alcuni tra i maggiori studiosi del fascismo ne avessero contestato l’autenticità.

Una paziente ricerca
Mimmo Franzinelli ci spiega in questo volume che la costruzione di falsi diari di Mussolini comincia negli anni ’50 grazie alle doti di riproduzione della calligrafia di Mussolini di due donne, Rosetta e Amalia Panvini Rosati, madre e figlia, principalmente per ragioni economiche. Una fonte di reddito non indifferente in un’Italia che continuava ad essere, in alcuni settori e malgrado tutto, affascinata dal dittatore e alla ricerca di un’immagine più pacificante della sua storia.
Sono gli anni, quelli della produzione di questi diari – come ci ha recentemente e ampiamente raccontato Cristina Baldassini in L’ombra di Mussolini. L’Italia moderata e la memoria del fascismo (1945-1960) edito da Rubbettino (pp. 352, euro 18) – in cui i rotocalchi pubblicano interviste a Rachele ed Edvige Mussolini, ma anche alle madri, alle mogli e alle figlie di squadristi e gerarchi, osservati attraverso la loro vita privata, quasi come se quelle interviste e quelle notizie non avessero alcun peso politico, ma fossero solo ritratti di costume.
I diari di Benito Mussolini, scritti per essere fatti circolare e venduti come veri, vengono a più riprese giudicati falsi dalle autorità giudiziarie, da storici, archivisti e grafologi, e più volte rimessi in circolazione. Tuttavia, la presenza di giudizi contrastanti e talvolta mutevoli sull’autenticità ne ha favorito la riemersione, anche perché è ampiamente attestato che Benito Mussolini in varie fasi della sua vita tenne un diario, e gli storici, i giornalisti e gli editori (oltre ai nostalgici), specie nel dopoguerra – ma la pubblicazione oggi dimostra l’interesse ancora vivo per questi testi -, cercavano e speravano di ritrovarli.
Franzinelli pazientemente ricostruisce questa storia: insegue queste pagine nel corso degli anni, cercando di capire che percorso abbiano fatto; cerca di trovare le mani che hanno potuto toccare e vedere questi testi, per attestarne l’autenticità o meno; si chiede se questi diari che compaiono e scompaiono siano sempre gli stessi oppure no.
E arriva addirittura, ma solo dopo la pubblicazione del proprio volume, a scoprire chi sia il proprietario anonimo dei diari dal quale il senatore Marcello Dell’Utri, tramite mediatori, è riuscito ad acquistare i volumi. Si tratta di un anziano commerciante di Domodossola, figlio di un partigiano – come nella vulgata più diffusa sulle origini del diario, per rendere più verosimile la storia del ritrovamento – ma non di un partigiano presente al Dongo, dove Mussolini venne catturato e ucciso (Antonio Carioti, Enrico Mannucci, Il giallo dei ‘Diari’ di Mussolini. Svelato il nome del possessore, «Corriere della Sera», 21 aprile 2011).

Le perizie tedesche
La parte più notevole di Autopsia di un falso è quella in cui Franzinelli mette a confronto la pubblicazione dei (falsi) diari di Hitler in Germania nel 1983 da parte del setimanale «Stern» (tradotti immediatamente in molte lingue) e l’edizione dei diari di Mussolini – veri o presunti, come recita ambiguamentte il titolo dell’editore Bompiani.
In quel caso – la Germania degli anni ’80 – lo Stato decideva di andare alla ricerca della verità, affidando una perizia agli archivisti dell’archivio di Stato tedesco, e il Ministro dell’Interno si prendeva la responsabilità di dichiarare in conferenza stampa che i volumi erano contraffatti, giungendo così a una denuncia e condanna penale dei responsabili e chiudendo per sempre la storia di quel caso editoriale.
In Italia, il nulla, come se le istituzioni di questo paese – anche quelle culturali – non si sentissero coinvolte dall’esistenza di questo testo e dall’incertezza sulla veridicità del testo. È il tipo di rapporto con il proprio passato e il modo con cui si vogliono o non si vogliono fare i conti con esso che determina la differenza di reazione nei due paesi. Del resto, in Germania, non era stato un senatore a far emergere il testo e a testimoniarne l’autenticità in dichiarazioni e presentazioni pubbliche, dopo averne comprato i manoscritti.
Nell’Italia del 2010-2011 nessuno però si stupisce. Sono pochi a sentirsi interrogati del fatto che un editore nazionale si permetta una simile leggerezza, disinteressandosi se il testo sia vero oppure no, perché anche se fosse falso (dichiara Bompiani) sarebbe comunque significativo.
Non saremo certo noi a negare l’evidenza di questa dichiarazione, ma perché un falso sia significativo bisogna spiegare o capire il contesto e le ragioni per cui è stato creato; se invece si lascia intendere che vero o falso pari sono, la situazione cambia radicalmente. L’operazione culturale che soggiace alla pubblicazione di questi diari andrebbe, del resto, maggiormente indagata anche per farsi un’idea dei messaggi che veicola questo testo.
Il volume dei diari dedicato al 1939 – I Diari di Mussolini 1939 (Bompiani 2010, pp. 994, euro 21,50) – è quello che Franzinelli analizza. Questo volume ha venduto già almeno diecimila copie, ma nessun’altra casa editrice internazionale di rilievo ha pensato di tradurre e pubblicare questo testo in un altro paese (e non per disinteresse al tema, visto che i diari della amante di Mussolini, Clara Petacci, sono stati recentemente tradotti in molte lingue). Ora abbiamo tra le mani anche un altro pezzo d’annata, quello dedicato al 1935 – I Diari di Mussolini 1935 (Bompiani 2011, pp. 836, euro 22,90), e parleremo di questo.
Il volume si compone di una introduzione, rigorosamente anonima e solo apparentemente equanime, che non risolve l’interrogativo/non interrogativo del titolo, ma che contesta le conclusioni del volume di Franzinelli. Successivamente c’è il testo integrale del diario e infine sono pubblicate le copie fotostatiche degli originali, per un totale di oltre ottocento pagine.

Sgrammaticature
Benito Mussolini disquisisce in queste pagine soprattutto del tempo atmosferico o del clima, o alternativamente si dedica alla trascrizione quasi alla lettera dei quotidiani del tempo. Un esempio tra i molti (tratto da pagina 108, 3 febbraio 1935): «eccezionale flusso di venti caldi il termometro segna 18 gr – Mare fortemene ondoso – nuvole e sole – Palazzo dell’Esposizione – Alla “vernice” della IIa Quadriennale d’Arte due ore di attenta osservazione di tutte le opere – Domani con l’intervento dei sovrani la mostra aprirà le porte al pubblico…».
Lo stile è molto diverso da quello del Mussolini oratore o giornalista. E, malgrado vi siano riscontri di un Mussolini più intimista nelle pagine dei diari – come ha riferito la sorella, Edvige -, chi scrive queste pagine ci appare uno sconosciuto che consegna al privato un’idea del fascismo e dell’uomo fascista che nulla ha a che fare con gli obiettivi politici del suo governo, oltre che con la retorica e la propaganda di quegli anni. Due immagini completamente scisse, il Mussolini privato e quello pubblico, per nulla dialoganti tra loro. Due uomini diversi e inconsapevoli della propria diversità.
Inoltre, come è stato rilevato dalla perizia dello storico Emilio Gentile per il settimanale «l’Espresso» sui quattro volumi 1935-39 – e osservato anche da Franzinelli per il 1939 – si ripetono in queste pagine frequenti errori grammaticali spiccioli, incongruenze anche nella trascrizione di nomi di conoscenti e amici di lungo corso, oltre che errori di data, così come abbreviazioni poco conformi alle abitudini di Mussolini ed errori materiali su luoghi geografici ampiamente frequentati o conosciuti. Questo Mussolini pare un po’ troppo sgrammaticato, scialbo e privo di memoria anche per chi non simpatizzi con il personaggio.

Potenti irresponsabili
Nel mare di osservazioni inutili e ricopiate tra i giornali, compaiono tuttavia spie evidenti della ragione di questa operazione politico-culturale. In queste pagine, infatti, Mussolini odia la guerra e se ne chiede la ragione, anche nel 1935, poco prima di attaccare l’Etiopia; schiva l’adulazione e si mostra disinteressato alla propria immagine; stima i suoi oppositori politici, al punto di affermare che diverse idee politiche hanno la stessa dignità; e non è per niente legato ai tedeschi e ad Adolf Hitler: non nel 1935 e neppure nel 1939.
Insomma in queste pagine si incontra un dittatore buono, forse un po’ limitato, ma decisamente in buona fede e come trascinato (non si capisce da chi) in una vicenda – l’alleanza con la Germania e la Seconda guerra mondiale – di cui non è, almeno psicologicamente, responsabile. L’edizione odierna dei diari sembra dirci che i disastri e le responsabilità del regime di Mussolini possono diluirsi nella buona fede di chi ne fu l’artefice: la cultura dell’irresponsabilità dei potenti di fronte alle loro scelte è di grande attualità.

Di Giulia Albanese (Dipartimento di Storia – Università di Padova) su Il Manifesto del 05/01/2012

M. Franzinelli, “Autopsia di un falso. I diari di Mussolini e la manipolazione della storia” (Bollati Boringhieri 2011, pp. 278, euro 16)

  • E. J. Hobsbawm, COME CAMBIARE IL MONDO. PERCHE’ RISCOPRIRE L’EREDITA’ DEL MARXISMO

La crisi economica scoppiata nel 2007 e tuttora in corso sta iniziando a cambiare il panorama intellettuale, cestinando la pretesa del capitalismo contemporaneo di ergersi a “fine della storia” e inducendo anche gli osservatori più insospettabili a leggere Marx per trovarvi le risposte che gli odierni economisti ortodossi appaiono incapaci di offrire.
Così, in un’intervista del 12 agosto al Wall Street Journal, Nouriel Roubini, dopo aver individuato nel sempre maggiore squilibrio nella ripartizione del reddito prodotto tra capitale e lavoro il motivo fondamentale della mancata ripresa americana, ha affermato testualmente: «Karl Marx aveva ragione. A un certo punto il capitalismo può autodistruggersi». Appena quattro giorni dopo George Magnus, capo economista della banca svizzera Ubs, iniziava un suo report ponendo in rilievo l’attualità di un celebre passo marxiano della prefazione del 1859 al Per la critica dell’economia politica: «A un certo livello di sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà». Roubini e Magnus sono i due analisti finanziari che quattro anni fa avevano previsto l’ampliarsi del crack dei mutui subprime a crisi sistemica. Oggi entrambi fanno ricorso a Marx per spiegare la persistenza di questa crisi.
Ha ragione lo storico britannico Eric Hobsbawm: «I liberalismi politico ed economico, da soli o in combinazione, non possono fornire la soluzione ai problemi del XXI secolo. È ora di prendere di nuovo Marx sul serio». Queste parole, con cui si chiude l’ultimo suo libro, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo (tr. it. Milano, Rizzoli, 2011, pp. 476, euro 22), sono probabilmente anche la chiave di lettura del suo successo, con l’edizione originale finita subito in testa alle classifiche inglesi.
Chi però pensasse di trovare nel testo di Hobsbawm delle “ricette per l’osteria dell’avvenire” rimarrebbe deluso. Quello di Hobsbawm, pur sostenuto da una visibile e robusta passione politica, è un ponderoso saggio di storiografia, che raccoglie contributi scritti dall’autore in più di 50 anni, ma che riesce nondimeno ad essere un’opera organica. Il testo è suddiviso in due parti: la prima sul pensiero di Marx e (in minore misura) di Engels, la seconda sul marxismo, le sue metamorfosi e la sua influenza sulla storia dal tardo Ottocento ai giorni nostri.
In questa parte, ricchissima di informazioni, si trovano anche due importanti capitoli su Gramsci, che Hobsbawm considera il pensatore marxista più originale del Novecento in Occidente e «il pioniere di una teoria politica marxista». Hobsbawm ricorda qui con ragione l’importanza del concetto di “egemonia”, per cui lo Stato non è solo coercizione, e il fatto che il movimento operaio, se vuole prendere e mantenere il potere, deve diventare classe dirigente. Hobsbawm ci ricorda anche l’importanza assunta dal pensiero di Gramsci in tutto il mondo: soltanto dalle nostre parti, salvo poche e lodevoli eccezioni, Gramsci sembra dimenticato o, peggio, trasformato in un santino laico – una sorta di Piero Gobetti un po’ estremista.
A nessun altro marxista novecentesco Hobsbawm dedica altrettanto spazio: né a Lenin, né a Mao. Questa scelta è coerente con uno degli assunti di fondo del libro, secondo cui «la fine del marxismo ufficiale dell’Urss» avrebbe «liberato Marx dalla pubblica identificazione con il leninismo nella teoria e con i regimi leninisti nella pratica». Questo è senz’altro vero, e Hobsbawm fa bene a prendersi gioco di coloro che deducono i gulag dal Manifesto del partito comunista: «Da un punto di vista intellettuale, ciò è giustificabile quanto la tesi secondo cui tutta la cristianità deve logicamente e necessariamente sempre portare all’assolutismo papale, o tutto il darwinismo alla glorificazione della libera concorrenza capitalistica».
Ma bisogna anche evitare di cadere nell’errore opposto: quello di separare in modo assoluto il pensiero di Marx dalla storia del marxismo (o, come Hobsbawm preferisce dire, dei marxismi), presupponendo che la storia del marxismo e del movimento operaio novecentesco sia una sequela di fallimenti e di false piste. Quando ad esempio si afferma, come fa Hobsbawm, che «non possiamo prevedere le soluzioni ai problemi che il mondo deve affrontare nel XXI secolo, ma se si vuole avere una chance di successo bisogna porre le stesse domande che si pose Marx, rifiutando al contempo le risposte dei suoi vari discepoli», non soltanto si fa un’affermazione che è già dubbia nella sua categoricità (tutte le domande di Marx sono giuste? Tutte le risposte dei suoi discepoli sbagliate? E giuste e sbagliate rispetto a cosa, a quale situazione storica o a quale Paese e in quale fase del suo sviluppo?), ma si taglia il filo di una tradizione dotata di una sua reale continuità e – soprattutto – ci si priva della possibilità di apprendere dal proprio passato (dalle sue vittorie come dai suoi errori e sconfitte).
Questo modo di procedere ha avuto notevole fortuna nella sinistra italiana, con risultati non entusiasmanti. Chi oggi voglia davvero cambiare il mondo non può più permetterselo.

Di Vladimiro Giacché su Liberazione del 25/08/2011

E. J. Hobsbawm, “Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo” (Rizzoli, 2011, pp. 476, euro 22).

  • W.Peruzzi, G.Paciucci, SVASTICA VERDE. IL LATO OSCURO DEL VA PENSIERO LEGHISTA

Tutti ne parlano, ma pochi hanno il coraggio di metterla in discussione. È il perno politico delle alleanze parlamentari italiane e lo spauracchio dei politici nostrani, tutti intenti a corteggiarla e a vezzeggiarla. Senza la Lega non si governa. Ma cos’è veramente la Lega? A questa domanda intende rispondere “Svastica verde. Il lato oscuro del Va’ pensiero leghista”, di Walter Peruzzi e Gianluca Paciucci, pubblicato dagli Editori Riuniti. Si tratta di una minuziosa e ruvida antologia del meglio del peggio leghista: notizie inedite, fatti poco noti, testimonianze d’’eccezione, l’’eversione, la xenofobia, il razzismo; ma anche la corruzione, i rapporti inconfessabili con le banche, le spartizioni di poltrone, i crac finanziari. Un libro che sbugiarda il modo con cui troppo spesso si “abbellisce” e si presenta all’opinione pubblica il fenomeno Lega: una vera e propria casta del settentrione, un gruppo di potere forse anche peggiore di quello romano, un partito che aspira a imporre un nuovo totalitarismo contando anche, come altri totalitarismi, sulle “indulgenze” delle forze democratiche e sulle simpatie del Vaticano.

Walter Peruzzi, nato a Verona nel 1937, già ordinario di storia e filosofia nei licei, pubblicista, vive a Milano. Ha collaborato a varie riviste (““Adesso””, “Riforma della scuola”) di cui alcune da lui dirette (“Bollettino Centro d’Informazione”, 1961-67; “Lavoro Politico” 1967-69; “Marx 101” 1990-95; il mensile “Guerre&Pace”, dal 1993). Ha pubblicato ricerche sociologiche e sull’’immigrazione e numerosi saggi.

Gianluca Paciucci è nato a Rieti nel 1960. Laureato in Lettere, è insegnante nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha lavorato e lavora tra Rieti, Nizza e Ventimiglia; in questa città è stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini” dal 1996 al 2001. Dal 2002 al 2006 ha svolto la funzione di Lettore con incarichi extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sarajevo, e presso l’Ambasciata d’’Italia in Bosnia Erzegovina, come Responsabile dell’Ufficio culturale. In questa veste è stato tra i creatori degli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo. Ha pubblicato tre raccolte di versi, Fonte fosca (Rieti, 1990), Omissioni (Banja Luka, 2004), e Erose forze d’eros (Roma, 2009); suoi testi sono usciti nell’’Almanacco Odradek”. Dal 1998 è redattore del periodico Guerre&Pace”. Collabora con le case editrici Infinito, Multimedia e con la “Casa della Poesia”.

W. Peruzzi, G. Paciucci,”Svastica verde. Il lato oscuro del Va’ pensiero leghista” (Editori Riuniti, pp. 270, euro 15).

  • Aa.Vv., FOIBE. REVISIONISMO DI STATO E AMNESIE DELLA REPUBBLICA

Atti del Convegno “Foibe: la verità. Contro il Revisionismo Storico

«La storia viene usata per l’oggi, per le esigenze politiche attuali. Si tratta di una campagna di intossicazione delle coscienze con riscritture, reinterpretazioni e falsità belle e buone, funzionali, da una parte, alla mobilitazione nazionalista, alla diffusione di stereotipi sciovinisti e razzisti, assunti ormai anche da buona parte del ceto politico di sinistra; dall’altra, alla criminalizzazione di chi oggi non si piega alle compatibilità del sistema capitalista. Tale campagna si concretizza anche nella legittimazione dei fascisti odierni, che diventano portatori di una ideologia come altre. Una ideologia dell’ordine, della sicurezza, autoritaria, fatta propria da buona parte del ceto politico autodefinitosi democratico. In questi anni molti si sono resi conto del significato della Giornata del Ricordo e molte sono state le iniziative per combattere questa campagna di intossicazione. E’, però, necessario combattere con maggiore efficacia, unendo le forze e le conoscenze. Questo convegno vuole essere un contributo in tal senso, non solo per rintuzzare e sbugiardare le menzogne che vengono propagandate, ma anche per fare un passo avanti per riappropriarci, nella sua interezza, della nostra storia.»

AA. VV., “Foibe. Revisionismo di  Stato e amnesie della Repubblica” (Kappa Vu, Udine 2008, pp. 198, euro 10,00).


  • William Gambetta, DEMOCRAZIA PROLETARIA. LA NUOVA SINISTRA TRA PIAZZE E PALAZZI

Per tutto il decennio successivo al Sessantotto, quando l’urto dei movimenti di protesta scosse il sistema politico repubblicano, l’aspirazione della nuova sinistra a rappresentare politicamente quella conflittualità sociale fu costante. Dopo le delusioni per la prova elettorale del 1972, fu il cartello elettorale di Democrazia proletaria, nel 1976, asegnare il passo in quella direzione. Un’esperienza che raccolse le principali formazioni dell’estrema sinistra – da Avanguardia operaia al Partito di unità proletaria, da Lotta continua al Movimento lavoratori per il socialismo – costituendo il tentativo più significativo di rappresentare le mobilitazioni di piazza negli equilibri dei palazzi del potere. Un’iniziativa unitaria percorsa da dinamiche e contraddizioni irrisolte, che si tradusse – alla luce dei risultati del 20 giugno – in una crisi irreversibile, nonostante l’elezione di una piccola pattuglia di sei deputati. Da essa, attraverso un tormentato processo di disgregazioni, scissioni e fusioni, l’area della nuova sinistra uscì ridisegnata. Nacque in quel contesto il partito di Democrazia proletaria, la cui assemblea costituente si tenne nell’aprile 1978 aRoma, durante i giorni del sequestro di Aldo Moro. Circostanza emblematica che palesò le difficoltà della nuova organizzazione, stretta tra le azioni dei gruppi armati e la repressione generalizzata dello stato. Una collocazione di enorme difficoltà sia per conquistare una vera e propria agibilità politica sia per promuovere un solido impianto d’analisi e di proposta strategica. Eppure, in quel contesto, Dp rappresentò un’alternativa concreta per avanguardie e delegati di fabbrica, settori sindacali e intellettuali, collettivi giovanili e comitati di lotta, associazioni democratiche, periodici e radio libere. Per coloro cioè che con lo spegnersi dell’ondata conflittuale non si rassegnarono né al ritorno al privato né alla scelta estrema della lotta armata.

William Gambetta è dottore di ricerca in storia presso l’Università di Parma Ha fatto parte della redazione di “Zapruder” e collabora con il Centro studi movimenti di Parma. Ha pubblicato saggi su riviste e volumi ed è tra i curatori di Memorie d’agosto. Letture delle barricate antifasciste di Parma del 1922 (Punto rosso, 2007).

William Gambetta, “Democrazia Proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi” (Edizioni Punto Rosso, Milano 2010, 288 pagine, ill., euro 15,00).

  • Angelo D’Orsi, 1989. DEL COME LA STORIA E’ CAMBIATA, MA IN PEGGIO

Doveva esser pace: è stata guerra, un proliferare di guerre atroci e pretestuose. Doveva sorgere la giustizia: si è accresciuto il potere politico ed economico di un’oligarchia globale, si è diffuso un individualismo feroce, sordo al dolore e alle legittime aspirazioni degli altri. Doveva espandersi il benessere: si è estesa la fame e, anche da noi, la povertà. Doveva rafforzarsi la democrazia: è stata svuotata e affossata dalle menzogne dei politici, dal restringimento dei diritti, dal silenzio complice di intellettuali asserviti.

Angelo D’Orsi, “1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio” (Ponte alle Grazie, Roma, 16 euro).

  • Rita di Leo, Ida Dominijanni, Mattia Diletti, Luisa Valeriani,   Stefano Rizzo, Roberto Ciccarelli, PASSAGGIO OBAMA. L’AMERICA, L’EUROPA, LA SINISTRA. UNA DISCUSSIONE AL CRS PROVOCATA DA MARIO TRONTI

Obama

STRALCIO DELL’INTRODUZIONE DI MARIO TRONTI

Allora, compagni. Come tutti avete potuto vedere, il mondo, a far data dal 4 novembre, è cambiato. Il cielo è sempre più blu, la terra sorride aperta finalmente all’audacia della speranza, le nostre notti non sono più cupe, rivisitati come siamo dal sogno americano. Il messia è tornato, come aveva promesso, cammina non sulle acque, ma sull’etere, narrazione di parabola in parabolica, questa volta per messaggini. Vi ricordate l’11 settembre? Nulla sarà come prima. Tutto è stato come prima. Questo è un 11 settembre rovesciato. Di nuovo, «siamo tutti americani». E non cambierà niente. Niente di quello che ci interessa cambiare.
Avete capito che sto gettando acqua sul fuoco, non per spegnerlo, ma almeno per circoscriverlo. Poi, speriamo sempre che la scintilla infiammi la prateria. Non ci saranno dunque conseguenze? Altroché se ce ne saranno! La soluzione questa volta è stata trovata quasi all’altezza del problema. Quasi: perché la crisi di fase capitalistica è più grave, più tosta, dell’invenzione di immagine, della risorsa simbolica, che si è messa in campo. Ma comunque, questa conta, e come se conta! Lo vediamo in queste ore, in questi giorni. Gli Usa di ieri, frastornati, disorientati, depressi, sono «rinati», come i ridicoli cristiani delle loro sette. Il fatto macroscopico, quello su cui dobbiamo prendere a ragionare, quello dentro cui dobbiamo mettere anche il successo Obama, è la chiusura del ciclo neoliberista, il crollo della finanziarizzazione selvaggia del capitale, la rivincita dell’economia reale, che si fa di nuovo viva come crisi della produzione materiale, con tutte le paure, le incertezze, i bisogni di voltare pagina, che essa porta con sé. E’ questo che ha reso possibile, perché necessaria, la vittoria della parola change. Non la spinta dal basso di una partecipazione popolare, con i suoi appassionati volontari, espressione spontanea della vitalità di una meravigliosa democrazia. Questa c’è stata, ma come un’onda provocata, raccolta e orientata verso un volto nuovo di «personalità democratica», che abbiamo già altre volte descritto come corrispettivo aggiornato della adorniana «personalità autoritaria». Attenzione. Qui l’accento batte non sugli aggettivi, democratica e autoritaria, ma sul sostantivo, personalità. C’è un problema preciso, teorico e storico: perché la democrazia, al pari del totalitarismo, ha bisogno, per funzionare, dell’idea e della pratica della personalità? Perché si fa il vuoto nelle istituzioni, e nelle organizzazioni, per riempirle poi con un volto? Problema. E un’altra cosa, meno astratta, più empirica. Da dove sono uscite le enormi risorse finanziarie di Obama, che hanno fatto apparire indigente nientemeno che la famiglia Clinton? In che percentuale sono state esse il frutto della mobilitazione dei neri, delle donne, dei giovani? E quali e quante le altre fonti?
La mia idea è netta, e la esprimo in modo netto, perché se ne possa lucidamente discutere: Obama ha vinto, perché a un certo punto l’establishment ha scelto Obama. A un certo punto: all’inizio, solo pezzi di esso si erano esposti, i più avvertiti, di fronte al disastro finale di Bush, poi, con l’esplosione della crisi vera, il grosso non ha avuto più dubbi. E il personaggio è volato nei sondaggi, anch’essi non certo spontanei. In democrazia, vince chi riesce a farsi presentare come il prossimo vincitore. Abilità e forza comunicativa aiutando. Il cambio è niente altro che un cambio di leadership, nel tentativo di riacchiappare un’egemonia che scappa. E siccome si tratta di un’egemonia-mondo, ci vuole un global leader. Poteva assolvere a questa funzione il vecchio soldato MacCain? Evidentemente, no. Guardate lo spostamento dell’opinione pubblica mondiale, di destra, di sinistra e di centro, prima e dopo le elezioni americane. Impressionante. Anche qui è un’onda. Per resistere, bisogna come Ulisse farsi legare al palo della nave, visto che non possiamo non vedere e non udire.
La verità è che gli americani sono oggi veramente in tutto debitori dei cinesi. Hanno infatti applicato alla lettera il motto di Deng: non importa se il gatto è bianco o nero, importante è che acchiappi il topo. Miei cari, i topi siamo destinati ad essere noi. Bisogna togliersi dalla testa che il partito democratico sia la sinistra e il partito repubblicano la destra americane. Non sono nemmeno il centrosinistra e il centrodestra, come vorrebbero i nostri ulivisti mondiali. Il bipartitismo perfetto e la perfetta alternanza di governo funzionano soltanto quando ci sono due partiti centrali di sistema. Sì, due diversi bacini di consenso, distribuiti socialmente e territorialmente, due blocchi di interessi tradizionali, molto mobili e trasversali, anche due scale di valori e di diritti, ma il tutto orientato sempre all’uno della grande nazione «eccezionalista». Impallidiscono i nostri nazionalismi europei di fronte a quello americano. Solo che quello non si chiama così. È Impero del Bene, religione democratica universalmente salvifica.
Chi più che un predicatore nero può oggi raccogliere le bandiere che i maledetti neocons hanno lasciato cadere nella polvere della guerra infinita? Se Malcom X diventa Obama, è perché il calderone di fusione ha funzionato alla perfezione. Nessun pericolo. Anzi, una formidabile opportunità. L’America è un luogo dove tutto è possibile: che un nero entri alla Casa Bianca e che diventi quindi un bianco qualunque. La novità c’è. Non è questo il punto. Ma l’arte di disporci dinanzi al nuovo in modo non subalterno, non l’abbiamo forse imparata? Il nuovo non ha un valore in sé, va misurato sulla nostra condizione presente, se siamo in grado di assumerlo e governarlo e piegarlo. Per quanto detto sopra, nei confronti di un cambio di leadership nel bipartitismo americano, io non faccio una scelta strategica, ma tattica. Chi mi conviene che vinca, chi mi lascia più spazio di movimento, chi mi consegna migliore capacità di manovra? Era opportuno uscire dalla grande crisi con Roosevelt, perché così le lotte operaie potevano imporre il compromesso keynesiano. Era giusto allearsi con gli Usa per sconfiggere militarmente il nazifascismo. Si poteva essere kennediani, se avevi alle spalle la forza del Pci e la potenza dell’Urss: non c’era pericolo allora di metterti nell’onda progressista, semplicemente subendola. Anzi ti serviva per innovare nel tuo campo. Il discorso è sempre quello: l’iniziativa di cambiamento del tuo avversario, o sei in grado di utilizzarla, o altrimenti ne rimani vittima. Perché mi sento di dire che non possiamo dirci oggi obamiani? Semplicemente perché siamo deboli. Non c’è in campo nessuna forza alternativa. Questo sarebbe stato il momento di una grande iniziativa del socialismo europeo. Non possiamo dare la supplenza al profeta del nuovo vecchio mondo. Così riconsegni la pratica egemonica, magari passando dall’unilateralismo al multipolarismo, a chi la stava giustamente perdendo. Il modo corretto di porre la questione, parlando politicamente, nel senso specifico del termine, è secondo me il seguente: Obama è adesso la figura nuova che assume il nostro avversario. Va ricollocata e rideclinata una proposta alternativa di organizzazione e di lotta sulla base di questa novità. Si apre un periodo di maggiori difficoltà. Era facile essere contro Bush, sarà difficile essere contro Obama. Si chiudono spazi per le esperienze di movimento, l’unica forma di soggettività emersa negli ultimi anni, non a caso a livello global, sul terreno dei partiti, nazionali, l’intendenza europea seguirà, l’Atlantico si farà più stretto. La luna di miele finirà, ma prima durerà. Tra l’altro, il giovanotto (!) è sveglio, è pragmatico, è cinico, è pigliatutto, ha perfino un pizzico di carisma, è intelligente perché si è circondato di persone mediamente intelligenti. Una machiavelliana presa di potere, perfetta. In questo, chapeau! agli Stati Uniti d’America, gli unici in grado di far ancora tesoro del detto, mitteleuropeo: là dove c’è il massimo pericolo, lì c’è ciò che salva. Aprite il discorso della vittoria. L’incipit: giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi d’America, gay, eterosessuali, disabili e non disabili. «Siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d’America». Che dobbiamo fare? Applaudire, alzare le braccia in segno di saluto, piangere di commozione?
Confesso. Sono ormai arrivato – il tono di questo testo lo documenta – al limite massimo di sopportazione per questo modo impolitico, apolitico, antipolitico di parlare di politica. Una parentesi. Se ho ben capito come vanno le cose del mondo, e a questo punto di lunga età mi pare proprio che sì, ecco: chiunque dice «ricchi e poveri» è mio nemico. Questo è un criterio del politico, una verità teorica assoluta, un punto di orientamento pratico, che consiglio di coltivare in sé come una pietra preziosa. Chiusa parentesi. E vengo invece a un punto di problema, su cui ho qualche incertezza, perché sento che qui c’è un a partire da me, dal mio modo di esistenza, che potrebbe deviare e far sbagliare il giudizio. E chiedo anche qui un contributo di discussione, e magari una capacità avversa di dissuasione. Insomma. Chi sono queste masse? Parlo delle folle di Chicago e di tutta la lunga intensa campagna obamiana. Ma anche di quelle del Circo Massimo, se sono, anche questo è da discutere, più o meno le stesse. Le guardo con curiosità e diffidenza. A me paiono foglie mosse dal vento delle parole e delle immagini, singoli individui collettivamente incantati dal suono del linguaggio, indifferenti, per non dire ostili, alle idee, agli argomenti, alle analisi. Piazze virtuali, un popolo da second life, che non esprime qualcosa, ma vuole essere espresso da qualcuno. Si potrebbe dire che non è una cosa nuovissima. Il Novecento ha visto fenomeni analoghi. Ma, secondo me, c’è una differenza. La nazionalizzazione delle masse, come la socializzazione delle masse, si fondava su idee forti. Ci si riconosceva in una dottrina, si assumeva e si portava un’ideologia. Il culto del capo era l’appartenenza a un campo, l’assunzione di un progetto. Così la massa si faceva soggetto. E poi la razza, o la classe, erano fattori oggettivi. Qui, oggi, non c’è nulla di tutto questo. C’è solo la fascinazione per una narrazione. Obama non rappresenta i neri, rappresenta tutti. Veltroni non rappresenta i lavoratori, rappresenta i cittadini. E dunque queste piazze sono piene di un niente. È un problema serio, forse il più serio. Penso che accanto all’osservatorio sulle élites, dovremmo ragionare intorno a un osservatorio sulle masse. Come riportare dentro questo politico virtuale il principio di realtà?
Da soli, soggettivamente, non ce la facciamo. Ci vuole una scossa sismica di alta intensità, di quelle che fanno saltare i pennini del sismografo. Dire, parlare, della sinistra, piccola o grande che sia, risulta, di fronte alla dimensione del problema, una chiacchiera da bar sul commissario tecnico della nazionale. Ci può aiutare solo la realtà stessa, sempre più ricca, rispetto a noi, di risorse imprevedibili, da scrutare e da utilizzare. Ma quale realtà, o quale pezzo di essa ci conviene che emerga? Qui, il discorso si fa duro, pronunciabile in parte, indicibile per intero. Io, se mai ne ho avuti, a questo punto non ho dubbi: meglio la crisi che lo sviluppo, meglio il conflitto che l’accordo, meglio la divisione aspra del mondo che la sua irenica unità. Sto parlando, realisticamente, del terreno più favorevole a che sorga una soggettività collettiva alternativa. Che non verrà da sola, senza un intervento politico dall’alto, a suggerire e a organizzare.

Rita di Leo, Ida Dominijanni, Mattia Diletti, Luisa Valeriani, Stefano Rizzo e Roberto Ciccarelli, “Passaggio Obama. L’America, l’Europa, la Sinistra. Una discussione al CRS provocata da Mario Tronti” (Ediesse, pp. 128, euro 9).

  • Gaetano Azzariti, Alberto Burgio, Alberto Lucarelli, Alfio Mastropaolo, MANIFESTO PER L’UNIVERSITA’ PUBBLICA

manifesto per l'università pubblica

Un ulteriore taglio dei fondi ordinari, semiparalisi delle assunzioni e delle prospettive di carriera per i giovani studiosi, trasformazione delle università pubbliche in fondazioni di diritto privato: sono queste le misure introdotte con una legge definitivamente approvata nel pieno dell’estate (la legge n. 133 del 6 agosto 2008). È l’intero sistema della formazione pubblica che si tenta di ridimensionare, è la concezione stessa del sapere critico che si vuole estirpare.
Contro la crisi dell’università pubblica da tempo voci isolate o minoranze combattive hanno manifestato il proprio dissenso e avanzato proposte. Ora però si tratta di una lotta per la sopravvivenza: la riduzione dei fondi, le misure che rendono pressoché impossibile l’inserimento dei giovani studiosi nel sistema di ricerca, la privatizzazione delle università, rappresentano le armi di un’eutanasia annunciata.
Contro queste misure il mondo universitario si sta ribellando. Dopo anni di torpore e silenzio gli studenti hanno ritrovato la voglia e la forza di manifestare. Una contestazione in difesa del proprio futuro, che si esprime in un’insofferenza di fronte al progressivo abbandono dell’università pubblica a favore di quella privata e in un tentativo di autoriforma degli studi superiori.
Il disagio della condizione in cui versa l’università e il declino cui viene sospinta sono le ragioni che hanno spinto alcuni docenti a riflettere sul presente (criticando le misure adottate o in via di definizione), ma anche a rivendicare un possibile futuro per la formazione pubblica (esaltando il ruolo della conoscenza e del sapere sia per la formazione della personalità dei singoli sia per la costruzione di una democrazia realmente pluralista). Nei saggi che vanno a comporre questo volume la denuncia delle scellerate politiche adottate (non solo dalla destra) nei confronti dell’università pubblica si collega alla convinzione che la formazione pubblica e il sapere critico sono un patrimonio essenziale; un patrimonio che la nostra Costituzione sottrae alla disponibilità di chi governa. Un’altra università pubblica è dunque certamente possibile: nel solco della Costituzione e in nome della libertà della cultura e della ricerca.

Gli autori del volume – docenti impegnati in diverse Facoltà, tra Torino, Bologna, Roma e Napoli – costituiscono un piccolo campione della complessa situazione accademica italiana. La loro denuncia è, al tempo stesso, una richiesta di futuro. I problemi sollevati nei loro interventi riguardano tutti coloro che hanno a cuore le sorti della formazione pubblica e della ricerca in Italia, nessuno escluso.

L’idea di questo libro nasce anche a seguito del Convegno «Costituzione e Università. Il ruolo dello Stato», organizzato a Napoli il 29 ottobre 2008 dal Dipartimento di Diritto dell’Economia della Federico II e dall’Istituto italiano per gli studi filosofici.

Contro la crisi dell’università pubblica da tempo voci isolate o minoranze combattive hanno manifestato il proprio dissenso e avanzato proposte. Ora però si tratta di una lotta per la sopravvivenza: la riduzione dei fondi, le misure che rendono pressoché impossibile l’inserimento dei giovani studiosi nel sistema di ricerca, la privatizzazione delle università, rappresentano le armi di un’eutanasia annunciata.
Contro queste misure il mondo universitario si sta ribellando. Dopo anni di torpore e silenzio gli studenti hanno ritrovato la voglia e la forza di manifestare. Queste le ragioni che hanno spinto alcuni docenti a riflettere sul presente, ma anche a rivendicare un possibile futuro per l’università pubblica e il sapere critico.

Gaetano Azzariti è professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Ha insegnato presso le Università di Napoli Federico II, Torino e Perugia.

Alberto Burgio è professore ordinario di Storia della filosofia nell’Università di Bologna. Si occupa prevalentemente di filosofia politica e di critica del razzismo.

Alberto Lucarelli è professore ordinario di Diritto Pubblico all’Università di Napoli Federico II. Ha insegnato nelle Università di Paris 1 e Toulouse 1. È direttore della rivista «Rassegna di diritto pubblico europeo».

Alfio Mastropaolo è professore ordinario di scienza politica all’Università degli Studi di Torino. Fa parte dei comitati scientifici di diverse riviste: «Teoria politica», «Meridiana», «Politix», «Raison politiques», «Rivista italiana di scienza politica».

Gaetano Azzariti, Alberto Burgio, Alberto Lucarelli, Alfio Mastropaolo, “Manifesto per l’università pubblica”, pagg. 96, € 10, ISBN 978-88-89969-63-2

  • Franco Piperno (a cura di) VENTO DEL MERIGGIO, INSORGENZE URBANE E POSTMODERNITA’ NEL MEZZOGIORNO

Eccolo qui.
Noi, un nucleo di sovversivi e cospiratori, giovani e meno giovani, in vista del crack delle borse mondiali e della fine del capitalismo, ci stiamo attrezzando: ed è per questo che abbiamo dato alle stampe questo libro – “il vento del Meriggio” – un manuale sulla sovversione sociale nel meridione, un piccolo contributo di analisi sulla necessità, le forme e le dinamiche delle ribellioni sociali che hanno scosso i nostri territori meridionali in questi ultimi anni.
Un libro che parla delle lotte di un sud che non china la testa dinanzi alle prepotenze e all’arroganza del potere e dei potenti, ma che anzi ricostruisce una trama di lotte, di relazioni sociali, di illegalità che diventano terreno di riappropriazione dei territori e di sottrazione degli stessi al controllo dello Stato.
Il libro raccoglie interventi di attivisti dei movimenti e dei centri sociali meridionali e pone al centro dell’attenzione le lotte in difesa del territorio, le condizioni disumane del regime carcerario del 41 Bis, le insorgenze diffuse contro il dominio soffocante dello stato e del mercato.
Consigliamo a tutti la lettura, tranne a questurini e magistrati.

INTRODUZIONE
Negli ultimi anni, dal Sud Italia riaffiora un fenomeno antico: le città rurali diventano soggetti politici capaci di decidere al di fuori e contro l’autorità costituita. Attingendo la propria potenza da comportamenti di massa pubblicamente illegali, si riappropriano dei territori e li sottraggono al controllo dello Stato. Si tratta di una profonda sovversione delle categorie della politica moderna. La rivalsa dei luoghi, lungi dal proporsi come guerra civile, si svolge piuttosto nella forma dell’insurrezione di massa che paralizza l’apparato del dominio statale semplicemente ponendolo in contatto con il corpo dei cittadini attivi. Sono le stesse forme della sovversione che abbiamo visto all’opera nei paesi dell’ex blocco dell’Est. Ma ricordano anche le insurrezioni meridionali dell’Ottocento, quelle «insorgenze di massa banditesche» contro i francesi prima e i piemontesi poi. Scanzano, Cosenza, Acerra, Serre… nell’immaginario dei giovani meridionali sono nomi che rievocano esperienze comuni di difesa e risarcimento dei luoghi dalle offese e le ferite che la modernizzazione ha inflitto loro.

L’indice
– Vento meridiano, a mo’ d’introduzione. Franco Piperno
– Il sud e la paranoia repressiva, ovvero la perpetua emergenza. Adalgiso Amendola
– L’altra comunità ovvero la comunità dell’altro. Franca Maltese
– Per vedere occorre prima chiudere gli occhi. Massimo Ciglio
– Paralipomeni alla tragedia meridiana. Elisabetta Della Corte
– Emergenza rifiuti: primum agire. Oreste Scalzone
– Contro l’emergenza rifiuti in Campania: percorsi di democrazia, conflitto e comunità. Francesco Caruso
– ‘A nuttat’ è passat’. Biopoteri e insorgenze cittadine in Campania. Pietro Sebastianelli
– La rivalsa dei luoghi: dieci tesi per la rinascita del Meridione. Elisabetta Della Corte e Franco Piperno

Franco Piperno (a cura di) “Vento del meriggio, Insorgenze urbane e postmodernità nel Mezzogiorno”,      pagg. 228, €13, ISBN 88-89969-39-7.

  • Massimo Calandri, BOLZANETO. LA MATTANZA DELLA DEMOCRAZIA

Genova, luglio 2001. In occasione delle manifestazioni che contestano il G8, 255 persone vengono «fermate» dalle forze dell’ordine e rinchiuse nella caserma di Bolzaneto, il «centro di temporanea detenzione». Tre giorni e tre notti che solo la storia potrà restituirci. «Grave compromissione dei diritti delle persone». «Comportamenti inumani e degradanti». «Una costante violazione delle libertà fondamentali». In una parola: tortura. Più in generale, uno «stato di eccezione», cioè la sospensione delle garanzie democratiche sancite dalla nostra Costituzione. Tutto ciò denunciano i Pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati, chiedendo la condanna di 45 tra generali e funzionari di polizia, ufficiali dell’Arma e guardie carcerarie, agenti, militari, medici. Ben sapendo che da sette anni c’è chi gioca con i tempi e fa spallucce, contando sulla prescrizione. Violenze, abusi psicologici, minacce, privazioni, offese: tutte accompagnate da un costante richiamo fascista, con i detenuti costretti a urlare «Viva il Duce!», esibendosi in umilianti sfilate con il braccio teso in un grottesco saluto romano, mentre un telefonino rimanda sinistra la musica di Faccetta nera.
In questo libro Massimo Calandri, giornalista del quotidiano «la Repubblica» che dal primo giorno a oggi ha seguito come nessun altro operatore dell’informazione le vicende di Bolzaneto, raccoglie le sconvolgenti testimonianze delle vittime, la vergogna dei carnefici, le confessioni dei colpevoli, gli atti dell’inchiesta e i passi più salienti delle quasi duecento udienze del processo.

Massimo Calandri
Massimo Calandri (1963) è redattore de «la Repubblica» dal 1992. Si occupa di cronaca giudiziaria. Collabora con «L’espresso», ha lavorato presso un quotidiano messicano («La Jornada») e alcuni giornali marocchini («Maroc-Hebdo», «L’Economiste»), collabora con riviste latino-americane. Autore teatrale, nel tempo libero insegna rugby ai bambini genovesi. Ha seguito tutte le inchieste e i processi sul G8 di Genova.

un assaggio…
Dalla prefazione di Giuseppe D’Avanzo

Questo libro di Massimo Calandri è soprattutto necessario. È necessario, perché non è un accidente o un disgraziato episodio quel che è accaduto a Genova a 55 «fermati» e 252 arrestati durante le manifestazioni del G8. Uomini e donne. Adulti e giovani. Ragazzi e ragazze, un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione. Spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano. Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista…). Quel che è accaduto tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001 nella caserma «Nino Bixio» di Bolzaneto è un evento che segna in modo decisivo lo spazio politico di una modernità che, sempre più diffusamente, sospende in alcuni luoghi ogni diritto, crea spazi d’eccezione e, sempre di più, quest’eccezione viene realizzata normalmente.
La caserma di Bolzaneto è diventata in quei tre giorni questo: un’area territoriale posta fuori dall’ordinamento giuridico, al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario; una zona d’indistinzione tra eccezione e regola, lecito e illecito in cui ogni protezione giuridica è venuta meno.
Quel venerdì 20 luglio, dopo il cancello e l’ampio cortile, i prigionieri vengono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo). A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: «Allora, non li vuoi vedere tanto presto…». A un’altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H.T. chiede l’avvocato. Minacciano di «tagliarle la gola». M.D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: «Vengo a trovarti, sai». Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti – gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra – e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni «per accertare la presenza di oggetti nelle cavità». Nessuno sa ancora dire davvero quanti sono stati i «prigionieri» di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono – 55 «fermati», 252 «arrestati» – sono approssimativi. Meno imprecisi i «tempi di permanenza nella struttura». Dodici ore in media per chi ha avuto la «fortuna» di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia «media» – prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera – è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all’ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.
La polizia penitenziaria ha un gergo per definire le «posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa». La «posizione del cigno» – in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro – è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell’attesa di poter entrare «alla matricola». Superati gli scalini dell’atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della «posizione» peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella «posizione della ballerina», in punta di piedi. Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato «entro stasera vi scoperemo tutte»; agli uomini, «sei un gay o un comunista?» Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: «viva il Duce», «viva la polizia penitenziaria». C’è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un «trauma testicolare». C’è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A. D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella «posizione della ballerina». Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l’altro piede». Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano: «Comunista di merda». C’è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». S. D. lo percuotono «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti», «ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte». S. P. viene condotto in un’altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». J. S. lo ustionano con accendino. (…)

Massimo Calandri, “Bolzaneto. La mattanza della democrazia”. Prefazione di Giuseppe D’Avanzo, pagg. 256, €15, ISBN 978-88-89969-54-0

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